Sognare la terra. Dubosc pensa il futuro possibile.

In Letteratura

Un mondo in cui l’uomo si consideri parte responsabile di un miglioramento universale, l’inizio di un epocale cambiamento etico: così Fabrice Olivier Dubosc in “Sognare la terra”, pubblicato da Exorma. Un saggio tra distopia, futurabilità, ansia da sicurezza e necessità di ragione.

C’è una frase di Lenin che viene usata per sintetizzare questi mesi dominati dal Coronavirus: “ci sono decenni in cui non succede nulla, e ci sono settimane in cui accadono decenni“. E queste sono quelle settimane, ovviamente. Questi giorni hanno mostrato tutto il significato dietro quelle che sembravano parole un po’ leziose e pompose: difficilmente, infatti, sarebbe stato pensabile uno stravolgimento così grande nei nostri modi di vivere anche soltanto un mese prima lo scoppiare della pandemia. Ma, ancora di più, segnale della forza dello stravolgimento che stiamo vivendo è l’incapacità, per la prima volta dopo decenni, di non riuscire a immaginare la nostra vita dopo tutto questo. La sensazione di rottura con un mondo pre-pandemia è particolarmente netta. I titoli pubblicati nella saggistica d’attualità appena qualche settimana fa ci appaiono quasi reliquie di un tempo arcaico ormai dimenticato. Ci risulta quasi impensabile e inimmaginabile un mondo che non abbia fatto i conti con il Coronavirus. Settimane che sono decenni, appunto.

Tutta questa premessa è sia perché è ormai impossibile parlare ignorando il Coronavirus, sia perché questa pandemia, pur nella sua rottura sconvolgente, è profondamente legata a tutto ciò che l’ha preceduta. Essa, infatti, non soltanto fa emergere tutte le faglie di crisi finora malamente celate – da quelle sanitarie a quelle economiche, da quelle sociali a quelle psichiche -, ma è essa stessa conseguenza se non inevitabile, quantomeno prevedibile, dell’antropocene. O del Capitalocene, per usare il termine di Fressoz e Bonneuil, che mette maggiormente l’accento sui fenomeni economici responsabili di questi cambiamenti. Non a caso, il libro del momento è stato Spillover di Davin Quammen, pubblicato nel 2012. (Anzi, per la precisione i libri del momento sono stati Spillover e Profezie di Sylvia Browne, in una specie di dittico di scienze e fede che dice più di mille parole su come stiamo cercando di affrontare questa situazione) Quammen, già nel 2012, avvertiva il pubblico mainstream del pericolo di cui il WHO era a conoscenza da anni: l’alterazione degli ambienti, il cambiamento climatico, l’urbanesimo e diversi altri fattori, rendevano sempre più probabile la zoonosi e la diffusione di una nuova pandemia. E ciò che non poteva non succedere è infine successo.

Se il Coronavirus s’è portato via, tra le tante cose, anche una grossa fetta di letteratura, d’altro canto ha fatto emergere la centralità e l’attualità di un certo tipo di saggistica che fino a questo momento sembrava sì interessante e importante, ma comunque distante: la saggistica della futurabilità. Ovvero quei testi che si interrogano su come sarà il mondo post-democratico e post-capitalistico. Proprio su questo argomento è uscito per Exorma edizioni, Sognare la terra di Fabrice Olivier Dubosc. Parlandone è possibile fare una breve ricognizione su questo tipo di letteratura, che ci dice qualcosa anche sulla nostra visione del mondo che ci aspetta. Bifo definisce la futurabilità come il livello di possibilità per cui uno dei tanti futuri contenuti nel presente possa realizzarsi. Possiamo dividere i diversi futuri davanti a noi, di cui ci parlano questi libri, in due grandi categorie: le distopie e le utopie.

DISTOPIE

Se è vero che tutte le utopie si somigliano, mentre ogni distopia è disgraziata a modo suo, possiamo comunque trovare alcuni punti in comune fra le diverse visioni infauste per il nostro futuro di questi anni.

Geoff Mann e Joel Wainwright parlano efficacemente di Leviatano climatico, ricollegandosi al pensiero di Hobbes, ovvero di “un governo capitalista planetario, un instabile Leviatano climatico che si arroga il diritto di esercitare un’autorità sovrana con il mandato di agire nell’interesse della vita sulla Terra“. E più o meno sempre su quest’accezione di deriva autoritaria si muovono le diverse visioni. Centrale, infatti, è la lettura del crollo della rappresentatività democratica.
Dubosc, in Sognare la terra utilizza la figura del troll per indicare la “modalità difensiva, inconsapevole, paranoide, incapace di confronto con il cambiamento” di un certo modo di pensare occidentale.
Il troll è la concretizzazione del sopravvento delle istanze regressive individuali.
È la richiesta – per rifarci a Hobbes – di uno Stato forte che ci tolga da questa situazione di insicurezza.
Il tema dell’insicurezza e dell’emergenza è fondamentale per comprendere perché si stia tanto discutendo di un crollo democratico e di un possibile avvento autoritario.

In un momento di crisi sanitaria come quello attuale, dove è necessario prendere misure straordinarie per evitare la catastrofe umanitaria, il rischio è quello che l’emergenza si faccia quotidiana e la sospensione di alcuni diritti, in special modo quelli della privacy, diventi regola.
Non è una novità, d’altronde, il Patrioct Act in seguito all’11 settembre può fungere da monito.
Il rischio, quindi, è quello di una deriva securitaria, che andrebbe a inserirsi all’interno di quel percorso ormai decennale che ha intrapreso il capitalismo fra big data e videosorveglianza.
Sempre Dubosc:

Si torna allora a un’idea di sovranità come “stato di eccezione” in cui la democrazia, per essere salvata da chi la mette in pericolo (in primis il terrorismo), va sospesa. Magari applicando il campo del diritto e quello del non-diritto secondo linee di demarcazione razziale in base a un principio di apartheid, come accadeva in Sudafrica.

Possiamo, inoltre, ricondurre questa visione, ricollegandoci amcpra alla figura del troll di Dubosc, alla frattura fra uomo e natura.

L’ipotesi è che il grado zero dell’ego tipizzato nella figura del troll sia il risultato di una perdita, la perdita di un dialogo con un doppio invisibile, con quell’alterità incorporea (un tempo percepito come daimon, angelo, djinn) che garantiva forme di conoscenza immaginative complesse. E che in molte tradizioni si coniugava in una mediazione con l’alterità costitutiva degli ambienti, le specie naturali e la loro semiosi complessa. In questa prospettiva il troll rappresenterebbe la perdita della mediazione.

Discorso che possiamo perfettamente sintetizzare nelle immagini delle città futuristiche ultraindustrializzate da Blade Runner in poi. L’ascesa, quindi, di uno Stato autoritario, dalla governance pressoché illimitata e pervasiva, espressione della forma definitiva del capitalismo, è caratterizzato e forse definito dalla supremazia della tecnica.

UTOPIE

Ma, nel fascio di futuri possibili che è il presente, accanto a questa oscurità, vi è anche della speranza. Ovvero, dei futuri che, proprio grazie alla crisi, sfruttando le faglie causate da quest’apocalisse a bassa intensità, possono cercare di emergere.
Per esempio, riprendendo il Leviatano climatico di Mann e Wainwright, i due autori gli oppongono un futuro anticapitalista e senza governance globale; o, ancora, il comunismo futuristico della sinistra accelarazionista a cui guardano Nick Srnicek e Alex Williams riassumibile nella duplice pretesa di piena automazione e reddito universale.
E’ a questo stesso tipo di futuro che guarda Dubosc e che ne mostra bene il punto di contatto fra questi futuri utopistici:

la ricerca di una politica del risveglio capace di pensare e praticare la nonviolenza e un’idea plurale di ‘comune’ e di ‘bene’ come nuovo fondamento politico.

Riprendendo la definizione precedente del futuro indesiderabile, si era messo l’accento su come fosse caratterizzato da una grossa rottura fra uomo e natura, e da una sottomissione completa di ogni aspetto umano alla tecnica. L’utopia, allora, si posiziona sul versante completamente opposto. Se là vi è una faglia, qua c’è una riconciliazione fra uomo e natura:

Le popolazioni che vivono in stretta relazione con altre specie animali e vegetali considerano questi enti non come altre specie non umane che fanno parte di una comune “natura” ma come Persone umane distinte da noi, non per una inferiorità qualitativa dei loro codici senzienti ma perché i loro corpi sono diversi e ciò dona loro una prospettiva specifica e unica. Così è la natura non la cultura a essere plurale.

Questo superamento di una visione antropocentrica – che si è concretizzato, tra le altre cose, nell’accadere dell’antropocene – è visto come causa e conseguenza del cambiamento sociale, economico ed etico oltre il capitalismo e oltre la crisi. Da questo superamento, infatti, della logica capitalistica che gerarchizza la realtà in una piramide di valori economici, è possibile ripensare l’organizzazione umana, in un modo che sia più giusto ed equilibrato. Equilibrato sia per gli individui che per le “persone non umane”, come, per esempio, gli animali.

Ma il profondo problema delle utopie, di questi racconti di speranze, è il loro essere sempre più affascinanti emotivamente che praticamente. Sognare la terra, al pari, è lucido e clinico nella descrizione dei mali che ci affliggono e che ci affliggiamo; appena prova a raccontare un mondo migliore – e, sia chiaro, è migliore – però tutto si fa più vago.

Come se sapessimo cosa sarebbe giusto, ma in fondo come se non credessimo veramente nella sua realizzazione. Un disincantato mondo dei balocchi. Forse perché mentre ne parliamo ci risuonano nelle orecchie le tragiche parole di Cesare Pavese che “la cosa segretamente più temuta si avvera sempre“.

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