Weekend russo a Roma. In compagnia di Onegin

In Musica

Evento di quelli da non perdere a Roma con al centro il capolavoro di Čajkovskij (all’Opera di Roma) e a far da autorevole contorno Petruška e il Nevskij a Santa Cecilia

Più che il Tevere, sembrava che a Roma scorresse la Neva lo scorso weekend, grazie al compendio di musica russa pensato dalle due più importanti istituzioni musicali della città. Al Teatro dell’Opera è andata in scena l’opera russa per eccellenza; o meglio, l’opera russa al quadrato: il capolavoro di Čajkovskij dal capolavoro di Puškin, Evgenij Onegin, con direzione di Conlon e regia dell’onnipresente Carsen – per fortuna, aggiungerei, dato che non sbaglia un colpo. Quanto a Santa Cecilia, in programma l’accoppiata PetruškaAleksandr Nevskij: un salto dalle maschere di Stravinskij all’epica di Prokofiev guidati niente meno che da Daniele Gatti, che questo repertorio lo frequenta da sempre.

Ma andiamo con ordine. Cronologicamente si parte con l’Evgenij Onegin, che non a torto i russi considerano la loro opera nazionale, un po’ come la trilogia verdiana da noi, con la differenza che più che un melodramma, si può forse definire elegia spinta: non tanto gli effetti senza cause dell’opera italiana, ma il “gioco dei sentimenti celebrati in sé e per sé, nella loro combustione pura”, come scrive Fedele D’Amico nel saggio contenuto nel programma di sala. Va detto però che questo malinconico inno fin de siècle non sfocia mai nel decadentismo vero e proprio: perché la partitura dell’Evgenij Onegin ha dentro troppa vita, troppe passioni irriflessive, troppe civetterie da gran ballo, mondane tanto quanto possono esserlo i duelli all’alba. Per non parlare dei sospiri a lume di candela, quelli di Tat’jana, le confidenze notturne sussurrate alla njanja prima di abbandonarsi a una lettera d’amore che gli studenti di tutte le Russie saranno poi costretti a imparare a memoria, come da noi l’Addio ai monti.

È questo in sintesi l’Onegin: l’opera del rimpianto per le occasioni perse, della vita che non va mai come dovrebbe andare, soprattutto quella sentimentale. Perché Onegin e Tat’jana sono sempre a un passo dalla felicità, ma non si incontrano mai al momento giusto. Quindi nessun lieto fine; anzi, a metà di questa tragedia del tempismo ci scappa pure il morto: il povero Lenskij, che non c’entra niente ma viene comunque freddato in un duello provocato dalla superficialità del protagonista. Alla fine Onegin sarà condannato alla solitudine, con Tat’jana ormai gran dama che esce per sempre di scena, stufa dei capricci del tenebroso dandy che tanto amava in gioventù.

Conlon e Carsen rileggono queste pene d’amor perdute tenendosi a distanza, stando un passo indietro rispetto al sovvertimento dei sensi che la musica di Čajkovskij suggerirebbe. Avara di slanci, ma elegante nello svolgimento (a parte qualche imprecisione ogni tanto, specie quando il coro è in scena), la direzione di Conlon ha qualcosa di stanco e languido, di egualmente sospettoso nei confronti di ritmi frenetici e incalzanti, come di abbandoni e respiri melodici, quasi per non scottarsi con la bruciante istintività della partitura.

Allo stesso modo lo spettacolo di Carsen, importato da New York, rende al meglio quell’atmosfera di tedio e beckettiana attesa che ci si aspetta da ogni provincia russa che si rispetti, tutta spleen e apatia, ma la racconta mettendola come tra virgolette, con betulle, foglie autunnali e uno spicchio di luna da notturno russo di tradizione. In breve, è tutto cecoviano quanto basta. Ciò detto, in una messinscena di Carsen non manca mai la sfumatura psicologica, il dettaglio che penetra nel cuore dei personaggi e li illumina dall’interno. Basti pensare all’atmosfera ovattata del duello che culmina in un’alba tragica di poetico realismo, o allo sprezzo con cui Onegin restituisce a Tat’jana la sua lettera dopo averla rifiutata, o ancora a quella stessa lettera nelle mani di Tat’jana che, ormai contessa, ripensa a quanto era capace di amare prima di cedere alle convenzioni di un matrimonio senza sentimenti.

Ottimo il cast, tutto di voci esili ma raffinate. La Tat’jana di Maria Bayankina è forse più convincente come ragazza di campagna, timida e ombrosa, che nel drammatico confronto finale. Markus Werba è un Onegin di gran classe, byroniano e cinico finché la sua crudele indifferenza non crolla nel terz’atto. Saimir Pirgu, nella parte dell’infelice poeta romantico Lenskij, è senz’altro quello che porta più incandescenza sulla scena. Completano il cast la Ol’ga di Yulia Matochkina, la Filipp’evna di Anna Viktorova e soprattutto il Gremin di John Relyea, per il fraseggio nobile nell’aria del terzo atto, vero gioiello dell’opera.

Fotografia © Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma

Quanto al concerto di Gatti con l’orchestra di Santa Cecilia, il direttore ha dato di Petruška (nella versione orchestrale del 1947) una lettura “more geometrico”, che proprio nello scavo analitico trova un’espressione asciutta e rigorosa, ma allo stesso tempo rutilante e propulsiva. Nessuna danza, nessuna follia, ma perché Gatti fa capire che non ce n’è bisogno, che il segreto di questa pagina stravinskiana è di tipo meccanico. Al contrario, l’enfasi guerresca e misticheggiante arriva con Aleksandr Nevskij di Prokofiev, scritto inizialmente dal compositore per il film di Ėjzenštejn nel 1938 e rielaborato l’anno dopo in questa forma per mezzosoprano, coro e orchestra. Gatti non si sottrae alla retorica della cantata, che giustamente non va smussata in alcun modo ma al contrario va presa per quello che è: un’inesauribile fonte di melodie, ritmi e folgoranti soluzioni che tendono all’eccesso e al celebrativo. L’orchestra ha dimostrato una duttilità straordinaria, alternando il suono più sontuoso a una trasparenza quasi ascetica. Perfettamente in parte Ekaterina Semenchuk, che pareva uscita da un allestimento ottocentesco del Ruslan, scalza e spirituale più che mai. Magnifica prova del coro diretto da Piero Monti.

Orchestra e Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
© Accademia Nazionale di Santa Cecilia / Musacchio, Ianniello & Pasqualini

Opera di Roma Evgenij Onegin di Pëtr Il’ic Čajkovskij. Dirige James Colon, regia di Robert Carsen (replica 29 febbraio)


Immagine di copertina © Yasuko Kageyama / Teatro dell’Opera di Roma