Difendo il doppiaggio

In Cinema, Weekend

Perché l’accento originale, la prova d’attore, perché vuoi mettere… E invece: un bel film ben doppiato dovrebbe essere garantito dalla Costituzione

«Lupo ululà e castello ululì» è più che scontato. Allora mi immagino Giannini in studio con davanti la faccia deformata di Nicholson: «Wendy tesoro luce della mia vita!». Rilancio poi con Ilaria Stagni che, tra i vari teppistelli alla Bart, ha fatto pure Macaulay Culkin: «Buzz, la tua ragazza! Che brutta!»

E con questi esempi mitici sottomano «non posso fare a meno di chiedermi» – come direbbe la voce fuori campo di Carrie Bradshaw di Barbara De Bortoli – se si tratta soltanto di traduzioni, di meccaniche localizzazioni audiovisive, o se qualcosa verrà perso davvero nell’evidente decadenza del grande doppiaggio all’italiana.

Anche senza fare l’hipster che guardava Dolan e Frances Ha in streaming quando nessuno li conosceva, ci vuole poco a capire che il doppiaggio dell’ultimo periodo non sta facendo sconti: che sia un film candidato all’Oscar o un tormentone televisivo adolescenziale si doppia senza convinzione, senza tempo, né soldi, né un briciolo di pietà.

E i sottotitoli stanno là a guardare in trepidante attesa, pronti ad assurgere alla glorie dei paesi del Nord dove «l’inglese lo parlano tutti molto meglio proprio grazie alle versioni originali», tasso di luogo comune pericolosamente vicino al cento percento.

È vero, il doppiaggio copre irrimediabilmente lo stile degli attori, e vogliamo mettere l’originale tono pastoso di un Matthew McConaughey? Qualcuno spererebbe davvero di ottenere un effetto equivalente al suo incomprensibile, ma fascinoso accento doppiandolo, per dire, in bresciano? E perché no!

Il raffinato Furio Jesi ad esempio nella sua splendida traduzione dei Buddenbrook mette in bocca al bavarese Permaneder un dialetto lombardo-veneto divertentissimo: forse per True Detective il risultato sarebbe ridicolo, ma questo per dire che può esserci sempre una trovata efficace per tutti i dettagli.

Insomma in un doppiaggio ben fatto si deve operare un vero e proprio cambiamento di coordinate, quasi di sistema di riferimento, come in un esercizio di fisica del liceo. Per “localizzare” un film a dovere bisogna tenere conto che in una nazione si cresce scolpiti in un certo modo.

Foucault lo chiamava epistème, e si riferiva alle lingue, credenze, tradizioni, pensieri, insomma all’intero assetto psicosociale, inseparabile dal punto spaziotemporale a cui appartiene.

Un buon doppiaggio ad esempio non si limiterà mai a tradurre uno sketch divertente, ma lo trasferirà nell’orizzonte umoristico del suo paese: ecco il perché della genialità di Frankenstein Junior o della balbuzie nevrotica di Lionello-Allen.

Per di più rinunciare al doppiaggio significa perdere un’occasione di evoluzione linguistica. Stimolati da trovate straniere, si può giungere a risultati di traduzione travolgenti, che magari condizioneranno persino lo sfondo linguistico di una generazione.

Con “francamente me ne infischio” il damn originale viene trasformato nella più liberatoria delle frecciate, ma senza che sia concessa la più piccola volgarità, con la voce di Emilio Cigoli ancora piena di stile dopo quasi ottant’anni.

Un bambino mentre cresce deve poter incorporare certe espressioni dei grandi film, e deve farlo nella sua lingua madre. Inutile invocare auspicabili bilinguismi o trilinguismi collettivi: non sono i film che ci faranno imparare l’inglese, e se guardiamo un film per imparare l’inglese vuol dire che non siamo poi così interessati al film.

Quelle stringhe di lettere che corrono da una parte all’altra dello schermo quando sono al cinema mi disturbano perché finisco col concentrarmi sulla comprensione letterale delle parole, e perdo inevitabilmente la visione d’insieme, come se si inceppasse la fluidità dell’esperienza. E questo, diciamolo senza vergognarci, capita anche con quel paio di lingue che siamo in grado di capire decentemente. E non è solo una questione di abitudine.

Per questo preferisco di gran lunga sedermi di fronte a un prodotto modificato, magari viziato e alterato, ma in cui posso riconoscermi: voglio un prodotto che mi sia commensurabile. E quando non resisterò più alla tentazione di sentire la vera voce di Stallone in Rocky, lo farò a cuor leggero perché so già a memoria le battute lette da Gigi Proietti.

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