Farley: vita di un uomo. Christine Dwyer Hickey racconta.

In Letteratura

Il tempo, la memoria, la catena di cause ed incontri che ci trasformano in quello che siamo: Christine Dwyer Hicker parla del suo ultimo romanzo, “Farley”, pubblicato da PaginaUno. Una storia che completa, in dittico, il lavoro iniziato con “Tatty”.

I suoi occhi pascolano più avanti, fermandosi sulle case dove sa che vivono anziani soli. Gente con cui non parla mai, al di là di un occasionale cenno del capo o un “non c’è male” passando oltre. Ma li tiene d’occhio lo stesso, e sa che loro lo fanno con lui. I vecchi sono fatti così, immagina. Una combinazione di interessamento e rivalità. Chi sta passando un brutto periodo, chi soccombe. Chi è stato sfortunato, chi è stato un’idiota. Li tiene vivi. Quella nota di soddisfazione nella voce della signora Waugh, quando le ha dato la notizia di Frank, per esempio. O il modo in cui si può vedere la gente al pub che salta alla pagina degli annunci funebri sul giornale prima di leggere una sola parola. Spesso sono proprio quelli messi peggio a leggerli per primi come se si aspettassero quasi di trovarci i propri nomi. C’è stato un tempo in cui potevi contare sulla casa stessa perché ti tenesse al corrente. Un filo di fumo dal comignolo, una bottiglia di latte non ritirata sulla soglia. Adesso se non butti giù la porta e ficchi il naso dentro, è quasi impossibile indovinare chi è dentro e chi è uscito. Chi è disteso da solo in fondo alle scale. Chi si sta trasformando in un iceberg umano fuori dalla propria porta sul retro.

Dublino, 2015
Farley ha 75 anni. È sdraiato sul pavimento del bagno: ha appena avuto un ictus, ma non lo sa. Impotente, raccoglie le forze. Cerca invano un appiglio intorno a sé. Per ritrovare l’orientamento, è alla sua memoria che tenta di aggrapparsi. Con la medesima fatica, inizia a ricordare.
È come essere protagonisti di un film che è già cominciato, o meglio, che sta già quasi per finire.
Lo sforzo di Farley è anche quello di chi legge: ricostruire a poco a poco la storia di una vita.

Dopo il successo di Tatty, Christine Dwyer Hickey dà vita a un nuovo romanzo: Farley, appunto, edito dalla casa editrice Paginauno, in cui la dimensione cronologica è la forza motrice della vicenda: man mano che si va avanti con la lettura si fa un passo indietro nel tempo.

Andando a ritroso, si scopre qualcosa in più su Farley, il protagonista che dà il nome a questa storia, sui suoi vicini di casa e sulla sua famiglia, sul suo lavoro, sulle aspirazioni della sua adolescenza e sulle emozioni della sua infanzia.

Dapprima il tempo si riavvolge solamente di ventiquattro ore. Poi il ritmo aumenta e, ad ogni capitolo, il lettore viene catapultato nel decennio precedente. Insieme a Farley, attraversa alcune particolari giornate che portano un peso speciale, non solo per il protagonista ma anche per l’intera comunità: una volta è lo sciopero della fame dei prigionieri politici, un’altra è il giorno della coppa del mondo di calcio, un’altra ancora quello dell’assassinio di John Lennon. In ogni occasione, la percezione dello scorrere del tempo è data da un momento specifico: un singolo giorno dà il senso di dieci anni trascorsi. Al lettore il compito di unire i puntini.

“Le nostre vite funzionano un po’ in questo modo”, sostiene l’autrice, “le cose accadono in un momento preciso, in un giorno, ma sono anche il risultato di una serie di cause che si susseguono. Spesso nella vita succede tutto nell’arco di una settimana e poi per anni non capita nulla di importante, o almeno così ci sembra. Quando scrivi non puoi spiegare tutto: è necessario scegliere un fatto e descrivere quello.”

L’arco temporale in cui si svolgono i fatti – tra il 2015 e il 1940 – è un periodo importante per l’Irlanda e per Dublino?

“Sì, sono anni cruciali: questa è la storia di un uomo ma è anche la storia di una città. Nei 75 anni compresi tra il 1940 e il 2015 Dublino è cambiata moltissimo. Quando io ero una bambina era più o meno la stessa di quando era piccola mia nonna, negli edifici così come nell’atteggiamento delle persone. All’improvviso ha iniziato a trasformarsi: a partire dagli anni Novanta è diventata ricca, moderna, prospera. Poi c’è stata la recessione e si è trasformata di nuovo. Per molti anni non è cambiato quasi nulla. Poi di colpo è cambiato tutto.”

Si può dire che il tempo in questo romanzo sia quasi un personaggio…

“Ogni narratore sa che scrivere un romanzo significa anche riflettere sul tempo. Farley, all’inizio del romanzo, è proprio come suo padre nelle ultime pagine. È come un cerchio, una ruota, che però gira nel senso contrario rispetto allo scorrere del tempo. Alla fine, vediamo il protagonista da bambino e il cerchio sembra chiudersi. Sarebbe interessante leggerlo dal fondo e scoprire se funziona anche così.

Noi viviamo senza ricordare la nostra infanzia e non sappiamo come saremo da vecchi. Però possiamo guardare ai nostri figli, che probabilmente ripetono i gesti che facevamo noi, e i nostri genitori che forse assomigliano a quello che diventeremo”.

Nell’intreccio del romanzo la cronologia dei fatti è invertita: si parte dalla fine di una vita e la si ripercorre a ritroso. Anche la scrittura ha seguito questo corso?

Sì, anche in fase di scrittura sono partita dalla fine.

E la storia era già definita quando ha iniziato a scriverla, oppure l’ha costruita strada facendo?

Quando ho iniziato a scrivere avevo in mente solo i primi due capitoli, in cui Farley è steso sul pavimento del suo bagno e, cercando di ricostruire quello che ha fatto il giorno prima, ricorda di avere ritirato in lavanderia un completo nero, di quelli che si usano ai funerali.

Quando ho finito di scrivere il secondo capitolo non avevo la minima idea di come sarei andata avanti. Allora mi sono ricordata di quando ero bambina, di quando mio padre mi mostrò gli ingranaggi che stavano dentro a un vecchio orologio. Ogni rotellina, girando all’indietro, faceva muovere anche le altre mandando avanti il tempo. E allora ho capito come avrei continuato il romanzo allo stesso modo, proseguendo con la storia a partire da un dettaglio molto specifico: il completo che Farley ritira in tintoria.

È un po’ come fare il detective. Quando scrivo un libro la mia mente diventa come il luogo del delitto. Il completo era un indizio: mi sono chiesta da dove arrivasse e ho dato a quello specifico oggetto una vita. Da lì ho trovato la chiave per ricostruire i fatti precedenti.

Come nasce l’idea di questo romanzo?

L’idea è venuta prima gradualmente, poi all’improvviso.

Farley ha iniziato a vivere in un racconto, una storia breve, una decina di pagine. Dopo averla scritta, l’ho chiusa in un cassetto e me ne sono dimenticata. O meglio, ho cercato di farlo. Ma dal cassetto Farley continuava a chiamare “Ehi, sono qui!”. Diventava sempre più presente da qualche parte nella mia testa. Quindi ho deciso di tornare a quel racconto: sentivo che qualcosa era rimasto in sospeso. Nella mia esperienza di scrittrice questo mi è successo due volte. La prima volta con Tatty, e poi con Farley. Entrambi sono nati come short stories, entrambi richiedevano più spazio. Alla fine, hanno avuto la meglio: mi hanno costretta a tornare da loro. 

Tatty e Farley. Questi due romanzi hanno molto in comune, soprattutto per quanto riguarda il trattamento del tempo.

Sì. Tatty e Farley sono l’opposto, ma al tempo stesso sono simili. In Farley, il protagonista è un uomo anziano, in Tatty invece è una bambina. Sono due romanzi speculari per il modo in cui viene trattata la cronologia. Anche in Tatty il tempo è protagonista, ma procede a passi più brevi. La bambina cresce di capitolo in capitolo, ogni volta ha un anno in più. Lei cresce mentre Farley torna indietro.

A chi si è ispirata per il personaggio di Farley?

All’inizio pensavo a mio padre, che ha trascorso gli ultimi anni della sua vita vivendo da solo. Pensavo agli uomini anziani in generale. Rispetto a questo, c’è una grande differenza tra Irlanda e Italia. In Italia le persone anziane possono starsene sedute fuori, al sole, a parlare, a giocare a carte, a prendere un caffè con gli amici. In Irlanda questo non succede. Prima di tutto fa freddo, ci sono solo i pub per stare al caldo e se vai in un pub, non puoi stare lì seduto e prendere soltanto un caffè. Devi spendere soldi. C’è molta solitudine quando arrivi a quell’età.

In più, Farley non beve: si concede due drink alla settimana. E se sei un uomo di quella generazione in Irlanda, il fatto che tu non beva alcool ti rende ancora più isolato.

In tutta questa solitudine rimane un po’ di speranza per il protagonista?

Leggendo di lui, vediamo come nel corso della sua vita, ci sono stati dei momenti di speranza. Quella di Farley è un’esistenza fatta di alti e bassi, un po’ come quella di tutti noi in fin dei conti. Nella sua vita c’è in generale forse più tristezza che felicità, anche se lui in fondo è un brav’uomo. La sua è una vita ordinaria, ma io credo che ogni vita ordinaria sia straordinaria.

Se ciascuno di noi raccontasse la sua storia, per ogni vita si potrebbe scrivere un romanzo o forse anche più d’uno. Tutte le persone che incontriamo sono dei romanzi che per la maggior parte delle volte restano non scritti. Trovo che la vita sia in assoluto la cosa più interessante di cui si possa scrivere. E lo dico non solo come autrice, ma anche come essere umano.

Nel corso del romanzo incontriamo molti personaggi secondari, qual è il loro ruolo?

Tutti noi incontriamo persone costantemente e anche gli incontri più brevi portano dei cambiamenti nelle nostre vite e viceversa. Nel bene o nel male. I personaggi secondari che ho inserito nella storia sono importanti. Sono la vita del protagonista. La vita stessa è questa serie di incontri che in qualche modo definiscono la nostra esistenza e ciò che diventiamo. Questa è una questione che mi sta particolarmente a cuore: cosa ci porta a diventare quello che siamo?

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