Brooklyn, take me in: oggi come ieri

In Weekend

Brooklyn è un contenitore di storie iniziate altrove. Oggi come ieri, quando Eilis, protagonista del film di Crowley, ci arriva dall’Irlanda. E se Brooklyn è cambiata, eguale, faticoso e bellissimo è il percorso che porta ogni emigrante a chiamare ‘casa’ anche il luogo in cui approda

Brooklyn, il film di John Crowley, fa venire in mente la canzone degli Avett Brothers, I and Love and you. “Brooklyn, Brooklyn take me in” ripete il ritornello. Comprendimi, accoglimi, perché non si può “stare con un piede dentro e uno fuori”. Bisogna tagliare i lacci col passato, pronti “a non tornare più” indietro. La voce dei fratelli Avett, arrivati a New York dalla Nord Carolina, risuona nelle orecchie guardando sullo schermo l’immigrata irlandese Eilis con gli occhi rivolti all’America che non ha ancora mai visto.

La protagonista del film che ha appena lasciato l’Irlanda “dove non c’era niente per me”, ha ascoltato racconti, ha immaginato strade, panorami, la vita laggiù. Ma l’unica certezza è un nome, “Vivrò a Brooklyn” dice Eilis nel film. Tutta New York accoglie immigrati da sempre, ma Brooklyn è uno dei luoghi in America che ne ha accolto di più in assoluto. I nomi delle strade, i cognomi sui campanelli delle case rimandano a questa storia. Che continua: perché anche oggi è Brooklyn la prima destinazione per i giovani sbarcati all’aereoporto con la valigia e un biglietto di sola andata.

Arrivare a New York per la prima volta con la consapevolezza che non si tornerà indietro presto può essere travolgente. Manhattan e il suo fermento, il frastuono assordante, il lusso, gli appartamenti minuscoli da condividere. Le mille cose da fare e i tanti, nuovi, codici da capire. Brooklyn è “l’altro luogo”, in cui tutto va (un po’) più lento. Fitta di microcosmi che si toccano e a volte si sovrappongono, ma più calma, più con i piedi per terra.

È ancora così in un certo senso. La traccia di sottofondo è la stessa, solo che oggi Brooklyn è il posto dove in molti, se non proprio tutti, vogliono stare. Se fino agli anni Ottanta per chi viveva a Manhattan “doing Brooklyn”, cioè avventurarsi al di là dei ponti, era impensabile, inutile e di sicuro pericoloso, oggi è questo il distretto più ambito di New York. Quando Eilis scende dalla nave va diritta a Clinton street, una strada lunga, costellata di case alte e signorili, che dal quartiere di Brooklyn Heights (dove abitava Truman Capote) scende fino al mare, attraversando Cobble Hill e Carroll Gardens. Due quartieri di immigrazione irlandese e italiana, oggi abitati da famiglie benestanti, coppie di trentenni, magari con lavori creativi e alla ricerca di un figlio.

Red Hook, Park Slope, DUMBO, Williamsburg, ogni quartiere di Brooklyn ha la sua storia di immigrati, un problema di gentrificazione e un’atmosfera precisa. Molte zone sono state raccontate dalgi scrittori che vivono o hanno vissuto nelle case a quattro piani di Park Slope, Boerum Hill e Carroll Gardens, o nelle zone industriali di Williamsburg e DUMBO. Chaim Potok ha raccontato la South Williamsburg hassidica nel suo Danny l’eletto o Il mio nome è Asher Lev. Su Fillmore Place, una piccola via al confine tra Nord e South Williamsburg (crogiuolo di immigrati ebrei, polacchi, italiani e adesso latinos) ha vissuto Henry Miller durante l’infanzia. Nel Tropico del Capricorno  la definisce “la strada ideale” per chiunque abbia voglia di avventure, e ancora oggi i turisti vanno a cercare la villetta rossa nella quale ha vissuto fino ai nove anni. La fortezza della solitudine invece è l’omaggio di Jonathan Lethem alla sua infanzia su Dean Street, una strada con i marciapiedi ancora lastricati di pietra, gli alberi altissimi, e le case maestose con l’accesso laterale sotto le scalinate di pietra (esattamente come nel film di Crowley). Lethem racconta il quartiere nel pieno della tensione sociale degli anni Settanta, quando i primi bianchi un po’ alternativi scelgono di spostarsi a Brooklyn, creando le prime coop e sperimentando con il cohousing. In una New York violenta e degradata, Boerum Hill è una delle zone “miste”, dove un ragazzino bianco e uno di colore diventano migliori amici, mentre intorno a loro sta nascendo la cultura hip-hop. Oggi anche questo è diventato un nido per scrittori, attori e famiglie borghesi. Come la Park Slope raccontata nei film (auto) ironici di Noah Baumbach e nei libri di Paul Auster (che si è trasferito lì negli anni Novanta).

Brooklyn (e tutta New York) è un contenitore di storie iniziate altrove. Città di immigranti, scappati o meno, che continuano ad arrivare e a fare i conti con quello che è rimasto indietro. Oggi ci sono le carte di credito, gli aerei, Skype e molto meno bisogno di sradicarsi, ma non è possibile evitare la nostalgia di casa, la sensazione di esser diversi, la fatica di farcela economicamente e di creare delle relazioni. New York non rassicura mai, ma nutre. E quando si apre una strada è qualcosa che ci assomiglia in modo spiazzante. Vita, amicizie e amori che ci corrispondono al punto da diventare indispensabili. Le scelte di Eilis sono quelle che tutti gli immigrati al mondo devono affrontare. E arrivare ad ammettere che ci sono più luoghi a cui possiamo dare il nome di “casa” è un percorso doloroso e bellissimo che si assomiglia al di là delle generazioni.

(Visited 1 times, 1 visits today)