“Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” di Lee Daniels, già regista di “Precious”, è u nuovo biopic, dopo quello con Diana Ross, sulla regina del blues. Un’opera appassionata e popolare, che fa della cantante un’icona della lotta per i diritti dei neri, senza tralasciare il lato melò della sua esistenza, i drammi sentimentali, la dipendenza da alcool ed eroina. Un film che sta molto sulle spalle di Andra Day, cantante diventata attrice per interpretare la vita e le canzoni di un’interprete indimenticabile
E’ del 1937 la prima proposta di legge presentata al Senato statunitense che chiedeva l’abolizione della pratica del linciaggio. Soprattutto degli afro-americani. Fu respinta. E nel 2021 ancora non ne era stata approvata nessuna, anche se il tema era in discussione in parlamento. Lo ricorda una didascalia iniziale di Gli Stati Uniti contro Billie Holyday, con una foto che mostra un gruppo di bianchi spettatori di un linciaggio, mentre un’altra didascalia spiega che la cantante Bille Holiday divenne famosa anche per la sua canzone Strange Fruit (scritta da Abel Meeropol e registrata nel 1939), che raccontava di corpi straziati di neri, “frutti” pendenti dagli alberi, lasciati lì per far da preda agli uccelli, al vento, al sole. Era la rappresentazione netta e inequivocabile degli effetti di un linciaggio. Con questo prologo, e la cornice di un’intervista di fine carriera accordata a un personaggio immaginario, il film diretto da Lee Daniels, autore del pregevole e premiato di Precious, introduce il pubblico nella vita di Eleanora Fagan, nata a Philadelphia nel 1915, diventata poi nota, notissima, celebre e amatissima come Billie Holiday.
La sua storia era già stata raccontata nel più patinato La signora del blues di Sidney J. Furie (1972), con Diana Ross, all’apice della fama, nel ruolo di cartello. Qui quasi subito vediamo come il suo pubblico, per esempio quello del Café Society di New York, era fatto di neri e bianchi seduti vicini, che l’applaudono entusiasti. Da metà anni 30 fino alla morte, nel 1959, a seguito di una cirrosi epatica nata dai troppi stravizi, dalle troppe richieste, artistiche e no, che aveva chiesto al suo corpo, il pubblico è stato quasi sempre dalla sua parte. Ma eravamo pur sempre in un’era, soprattutto nel Sud degli Usa, in cui il razzismo dominava, e dove per esempio le fu impedito di salire su un ascensore d’albergo che era solo per i bianchi. In quel disgraziato periodo, dal 45 a fine anni 50, noto soprattutto per la caccia alle streghe anti-comunista del senatore McCarthy, l’Fbi fu usato anche in funzione anti-droga: il che troppo spesso voleva dire (e vuol dire anche oggi) anti-black people. Al punto che nel momento in cui Billie moriva in un letto d’ospedale l’agente Harry Anslinger (Garrett Hedlund), capo del Federal Bureau of Narcotics con cinque presidenti (da Hoover a Kennedy, il quale lo premiò il giorno del pensionamento), che le aveva dato la caccia da almeno quindici anni, le mise addosso una dose di eroina e l’arrestò.
Secondo Daniels e il suo film la vera ragione di tanto odio e accanimento stava proprio in quella canzone, Strange fruit, che sbatteva in faccia al pubblico la crudele violenza dei bianchi: scritta da “un comunista di origini russe”, era un potente invito alla rivolta, e poteva metter in testa a chi l’ascoltava idee negative sul governo e l’America. Diventerà infatti uno degli inni del movimento dei neri per i diritti civili. Cantarla, nonostante le insistenze contrarie di produttori, manager e partner, costerà a Holiday il ritiro della licenza per esibirsi nel circuito dei jazzclub di New York. Per possesso di droga, dopo un’arresto costruito in modo fraudolento, lei finirà anche in carcere per un’anno e un giorno, e la caccia si concluderà solo nella stanza d’ospedale in cui morirà, ammanettata al letto. Holiday isolata, ingannata, sfruttata anche dalla sua gente, dipendente, nonostante i tentativi di disintossicazione, come il suo partner Lester Young, da alcol, oppio, eroina. Anestetici per un passato di abusi (il primo già a 10 anni) e abbandoni che renderà quasi impossibile la sua vita sentimentale, riflettendosi nelle storie dei suoi tre matrimoni con Jimmy Monroe, Joe Guy, Louis McKay. Mentre l’unico uomo che forse amò davvero, Jimmy Fletcher (Trevante Rhodes, già protagonista del film Oscar Moonlight di Barry Jenkins) sarà anche disperatamente l’unico a non abbandonarla mai, nonostante avesse in passato contribuito non poco alle sue sfortune, come agente anti-droga dell’Fbi, messo alle calcagna di una star così pericolosa.
Angela Davis nel suo saggio del 1998 Blues Legacies and Black Feminism, sostiene che, insieme a Ma Rainey e Bessie Smith, lei abbia gettato le basi per un’estetica diversa, che ha favorito l’affermazione di nuovi valori sociali, morali e sessuali, lontani dei vincoli imposti dalla rispettabilità della classe media, avendo cantato l’amore fuori dal matrimonio e il sesso slegato dalla procreazione. Di certo il film di Daniels è senza se e senza ma, didascalico fino a essere “a tesi”, come si diceva una volta, sul piano politico e del racconto popolare. In questo ricorda alcuni dei film più riusciti di Spike Lee, per esempio Malcolm X, regista che ama rivolgersi a platee il più vaste possibili. Ma qui sicuramente il regista usa anche il lato melò, proprio di ogni bio-pic americano che si rispetti, per delineare il ritratto di una donna infelice, logorata da una vita che fin da piccola l’ha esposta, indifesa, a brutture di ogni genere. E non fa certo l’apologia del mondo che le stava intorno, bianchi e neri – la maggior parte, ma non fa differenza – quasi tutti assai male intenzionati a sfruttare in senso economico o di vetrina la vicinanza a una voce così straordinaria, e a una performer di così evidente talento.
In questa direzione di forte impatto pop appare più che efficace la scelta di affidare il ruolo di Billie alla 37enne Andra Day, giovane e affermata star più della musica (una quindicina di singoli all’attivo, famoso il singolo Rise Up) che del cinema, anche se non è un’esordiente assoluta, era nel cast di Marcia per la libertà di Reginald Hudlin: splendidamente vestita da Angelo Nieddu, per questo ruolo ha avuto una meritata candidatura all’Oscar 2021, battuta solo dalla straordinaria Frances McDormand di Nomadland, ma si è rifatta vincendo il Golden Globe. Grazie anche alla sceneggiatura amica, per lei costruita da Suzan Lori-Parks (premio Pulitzer 2002 per la drammaturgia grazie a Topdog/Underdog) che prende spunto da un capitolo del libro Chasing the Scream di Johann Hari dedicato alla Holiday.
Day canta ovviamente tutti i brani di Billie in scaletta, e sono davvero tanti, tanto più che sul piano strutturale, dell’impaginazione del racconto, Daniels ha scelto di usare le sue canzoni più famose – a parte la “pietra dello scandalo” Strange Fruit, secondo Time “la” canzone del XX secolo, e All of me, l’hit n.1 della cantante – come costante, puntiglioso contrappunto alle vicende drammatiche, spesso irrimediabili, della vita della protagonista. Usa i testi dei songs come vere didascalie dei fatti mostrati nelle immagini, quasi come in una rappresentazione medievale della vita di un gran personaggio, un cavaliere, un re o un santo. In effetti molti di questi brani, vicini o direttamente ispirati agli accadimenti della sua vita privata, la rappresentano bene nell’alternanza di slanci, entusiasmi, coraggiose prese di posizione pubbliche, e cadute nella disperazione, nella solitudine, nella confusione mentale e affettiva. Soprattutto nella dipendenza da eroina o alcol. Anche questa scelta narrativa, efficacemente popolare, contribuisce all’esito positivo del film. Che parla però, prima di tutto, di linciaggio, pratica che negli Usa è stata riconosciuta come reato federale solo poche settimane fa, e che in meno di un secolo, tra il 1882 e il 1968, ha permesso di torturare e uccidere almeno 5mila persone, in gran parte afroamericane.
Gli Stati Uniti contro Billie Holiday di Lee Daniels, con Andra Day, Trevante Rhodes, Garrett Hedlund, Miss Lawrence, Leslie Jordan, Natasha Lyonne, Tone Bell, Tyler James Williams, Rob Morgan, Dana Gourrier, Evan Ross, Da’Vine Joy Randolph