Biennale Impression – uno sguardo su tutti i mondi futuri

In Arte

La biennale di quest’anno, curata dal nigeriano Enwezor, punta molto in alto. Un breve e personale sguardo d’insieme basato sulla visita del nostro Filippo Bottini

La Biennale di quest’anno, curata dal nigeriano Enwezor, punta molto in alto. Un breve e personale sguardo d’insieme basato sulla visita del nostro Filippo Bottini.

Visitare una Biennale è sempre un’esperienza decisamente provante. Vedere centinaia di opere di centinaia di artisti allestite in due enormi aree della città di Venezia è un’impresa ardua anche per chi di arte contemporanea ne mastica ed ha la fortuna di poter dividere la sua visita in due giorni. Sono fondamentali una grande capacità di concentrazione ed un’impeccabile forma fisica per poter fronteggiare l’impresa. Di questo oceano di stimoli è ancor più difficile scrivere, soprattutto se non si intendono causare devastanti orchiti nei lettori. Ho quindi deciso di dividere questo mio racconto in capitoli, in modo da chiarire le idee a me stesso mentre le butto giù e rendere il tutto più facilmente sorbibile al mio pubblico.

Curatore. Okwi Enwezor, classe 1963, è nato a Calabar in Nigeria. Trasferitosi in periodo adolescenziale a New York, dopo aver ottenuto una laurea in scienze politiche si dedica al campo artistico curatoriale, fondando diverse associazioni culturali. L’incarico che gli aprirà le porte del sancta sanctorum dell’arte arriva nel 2002, con l’assegnazione dell’incarico per la curatela della dOCUMENTA di Kassel.

Curatela. All the world futures si presenta in perfetta sintonia con il carattere enciclopedico che ha caratterizzato le passate due Biennali. Il fine è percorrere con un occhio rivolto al domani ed uno all’oggi i linguaggi che hanno condotto all’attuale condizione dell’arte contemporanea. Il titolo stesso ci suggerisce una ricerca che vuole partire dal contemporaneo per arrivare a intravedere, o quasi a prevedere, ciò che sarà in futuro. L’introduzione con cui Enwezor ci vuole presentare la sua creatura prende le distanze dall’atteggiamento meramente onnicomprensivo totalizzante, non si vuole qui creare un’enciclopedia di tutta l’arte, ma analizzarne la produzione secondo tre filtri. I titoli di questi tre ambiti sono: Garden of Disorder; Liveness: On Epic Duration; Reading Capital. Questi tre punti di vista devono sovrapporsi per consentire una lettura inedita dell’arte tra installazioni commissionate ad artisti, performances e letture critiche. Si delinea così quello che Enwezor chiama il Parlamento delle Forme, una realtà globale in cui 136 artisti, di cui 89 presenti per la prima volta, danno voce ad un dibattito corale sullo stato delle cose nel mondo artistico.
Molto interessante l’idea di rivedere la produzione artistica nella sua relazione con le logiche del mercato da cui essa non può prescindere, come ci suggerisce la presenza in uno dei tre filtri del Capitale Marxiano. Così come l’intenzione di inserire moltissimi artisti emergenti nell’esibizione, gran parte dei quali di provenienza africana.

Allestimento.  L’allestimento del curatore ha luogo come da tradizione negli spazi del padiglione centrale dei Giardini e lungo le corderie dell’Arsenale. In un susseguirsi di mostri sacri affiancati a nuovi volti dell’arte anche non proprio contemporanea, il percorso conduce il visitatore attraverso la grande riflessione di Enwezor. Purtroppo la mostra fa moltissimo affidamento su opere performative e su eventi, difficilmente fruibili dal visitatore occasionale. Ecco quindi che la poesia promessa dai tre filtri delineati nell’introduzione svanisce per lasciare spazio ad una mostra che di fatto non si stacca moltissimo da un modo di esporre arte quasi classico improntato sul semplice susseguirsi delle opere.
Ogni tanto qualche ambiente regala dialoghi del tutto inattesi tra artisti completamente diversi, come nel caso della prima sala dell’Arsenale, in cui i neon retro-fantascientifici (per la sensibilità degli anni ’80 per intenderci) di Bruce Nauman si trovano immersi nell’impegno sociopolitico di un’installazione di Adel Abdessemed composta da una moltitudine di mazzi di scimitarre conficcate nel terreno.

Bruce Nauman, Knows Doesn’t Know, 1983.
Bruce Nauman, Knows Doesn’t Know, 1983.

Non mancano le opere di carattere più concettuale come i sondaggi di Hans Haacke, di cui ne vengono riproposti di passati ma anche uno nuovo studiato apposta per l’occasione e a cui i visitatori possono attivamente partecipare, o le pratiche di Adrian Piper, che invita i visitatori a firmare con lui un contratto (di effettiva validità legale) in cui promettono di non infrangere mai i propri principi morali.

Adrian Piper, The probable Trust Registry, 2015.
Adrian Piper, The probable Trust Registry, 2015.

Dall’Africa arriva Emily Kame Kngwarreye, che propone uno stile espressionistico astratto dal sapore un po’ ingenuo e retrò ma con una vivacità intrigante.

 

Emily Kame Kngwarreye, Earth’s Creation, 1994.
Emily Kame Kngwarreye, Earth’s Creation, 1994.

Padiglioni nazionali. La mostra prosegue con allestimenti non curati da Enwezor. Sono i padiglioni nazionali, in cui ogni nazione invitata allestisce la propria visione riguardo al tema proposto. In tutto sono 89, visitarli tutti è una fatica di proporzioni erculee. In questo mio resoconto sono obbligato ad una sintesi estrema, pertanto mi limiterò a parlarvi di quattro di questi. Il criterio con cui ho scelto quali trattare fa affidamento su ancestrali metodologie deontologiche e sofisticati processi olistici: il mio puro gusto personale.

Francia. I cugini d’oltralpe ci sorprendono con un’installazione che punta tutto sul cortocircuito mentale. Dentro e fuori dal loro padiglione sono posti tre alberi che tranquillamente vegetano su un ammasso di substrato necessario a farli vivere. Questo bolo di terra è posto sopra una vettura, con tanto di motore e ruote, che li scarrozza in giro per i Giardini. Scusatemi se perdo il mio aplomb ma l’idea stessa di un albero che deambula per me è semplicemente meravigliosa, fa emergere il bambinone che c’è in me. L’artista è Caroline Bourgeois-Mougenot, e con questa sua opera vuole proporci un tipo di esistenza sperimentale che produce uno stato di natura inedito.
Ho scritto sul mio taccuino: “alberi che vagano. Pazzi!” seguito da un cuoricino.

Céleste Boursier-Mougenot, Rêvolutions, 2015.
Céleste Boursier-Mougenot, Rêvolutions, 2015.

Canada. Dal Grande Nord arriva CANADASSIMO, installazione che mira a ricreare un tipico chiosco degli anni ‘90 da autostrada canadese. La tematica è decisamente pop e la verosimiglianza dell’intervento mi ha immediatamente tratto in inganno, tant’è che da distratto l’ho confuso con il bar della Biennale. Ad uno sguardo più attento si notano i prodotti ormai fuori commercio, il prezzo in dollari canadesi e tutto un mondo di altri minuti particolari che ci rivelano di non essere in uno spazio usuale ma in una sofisticata analisi di una fetta di società di un periodo storico a noi prossimo.
Ho scritto sul mio taccuino: “LOL!”

Giappone.
Dal sol levante giunge un’installazione molto immersiva, che coinvolge per intero il padiglione giapponese. Si tratta dell’opera di Chiharu Shiota The Key in the Hand, composta da due barche in legno unite da una miriade di fili di lana rossi alle cui estremità sono appese delle chiavi, il cui peso unito alla direzione dei fili genera una tettonica del tutto particolare, facendoci immergere in un nuovo mondo. Il tutto è molto simbolico: la barca ci ricorda il viaggio in territori che non sarebbero abitualmente i nostri, il filo rosso evoca passionalità e coinvolgimento del cuore, le chiavi aprono qualcosa… che cosa è a discrezione dell’osservatore.
Ho scritto sul mio taccuino: “Wow! Immersiva e coinvolgente”.

Chiharu Shiota, The Key in the Hand.
Chiharu Shiota, The Key in the Hand.

Gran Bretagna.  Dulcis in fundo, o almeno questo è quello che sarebbe piaciuto sentire dire a Sarah Lucas a proposito della sua mostra interamente incentrata sul vizietto. Partendo dal concetto di crema intesa come custard, tipico dolce inglese, I Scream Daddio si tinge del colore giallo e presenta opere che si interrogano sul tema del piacere grezzo e istantaneo. Ecco fioccare quindi statue composte da calchi in cemento di parti anatomiche del corpo femminile con sigarette infilate in orifizi in cui non è uso comune infilarle. All’ingresso ci accolgono due enormi statue di figure umane, figurativamente come composte da palloncini, con giganteschi falli esposti in verticale. Il tutto accompagnato da statue di gattini sempre riferite all’estetica della composizione di palloncini. Lo sguardo beffardo della Lucas si rivolge a quegli aspetti del nostro modo di vivere che si compongono di vani e futili titilli, in particolare il vizietto della sigaretta associato a quello della sessualità è molto accattivante.
Ho scritto sul mio taccuino: “In qualche modo raccapricciante e intrigante allo stesso tempo”.

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Nel complesso la visita di questa biennale mi ha stimolato, incuriosito, divertito, annoiato, stancato, meravigliato. Si tratta sempre e comunque di un evento grandioso, di cui il mondo dell’arte ha un gran bisogno e che sarebbe un gran peccato perdere. Mi viene però a mente fredda una riflessione critica: se questa esposizione serve a dare qualche indizio per intravedere qualche ipotetico futuro dell’arte temo che non ci siano ottime notizie… forse in questo caso il programma avrebbe voluto volare più alto di quanto la fattibilità gli abbia effettivamente permesso.

Image credits – 56. Esposizione Internazionale d’Arte – la Biennale di Venezia, All the World’s Futures
Photo by Alessandra Chemollo e Sara Sagui
Courtesy: la Biennale di Venezia

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