Berlino trasgressiva e disperata, con Hitler alle porte

In Cinema

Dominik Graf firma “Fabian”, dal celebre romanzo anni 30 di Erich Kastner, che mostra gli ultimi sussulti della Repubblica di Weimar tra crisi economica, boom dei media e culto dell’ambiguità. Scettico testimone della sua epoca, innamorato della bella Cornelia che vuol fare l’attrice, Fabian assiste al declino di una città e di un paese pronti a consegnarsi alla più sanguinaria delle dittature

Due serie nate per la televisione, la storica versione per immagini di Berlin Alexanderplatz firmata da Rainer Werner Fassbinder partendo dal romanzo di Alfred Doblin, a il recente successo di Babylon Berlin, tre stagioni di racconto poliziesco sullo sfondo dell’ascesa del nazismo in Germania, hanno confermato la straordinaria forza narrativa ed evocativa del periodo della repubblica di Weimar, i Ruggenti Anni 20/30 tedeschi che cumulavano trasgressione e sfascio economico, rivoluzioni sognate e totalitarismo in arrivo. Un periodo capace di produrre una descrizione socio-culturale ed esistenziale quasi mitica, come la Parigi del ’68 e la Roma della “Dolce vita”.  La ridefinizione dei ruoli di genere e più in generale una profonda ambiguità sessuale, la cultura del cabaret, del divertimento, dell’eccesso (alcool, droga), la centralità dei media (cinema, teatro, radio, pubblicità, giornali, musica jazz, spesso collegati), la moda, il design, una più generale attenzione al corpo per la prima volta fenomeno di massa.

Tutto questo torna, con soluzioni stilistiche abbastanza personali quantunque non inedite (lo split screen e l’uso del b/n e di imagini d’epoca per mettere a confronto le vicende personali e lo sfondo storico) in Fabian – Going to the Dogs, secondo adattamento per lo schermo di un famoso romanzo omonimo del giornalista e scrittore Erich Kastner, poi censurato e bruciato dalle SS, uscito nel 1931, lo stesso anno dell’ultimo film tedesco di Fritz Lang, uno dei suoi capolavori assoluti, M. La la prima versione per immagini è stata firmata da Wolf Gremm nel 1980, lo stesso anno del film da Berlin Alexanderplatz, il cui libro ispiratore era peraltro uscito nel 1929, in piena era Lang-Kastner. Tutto molto collegato e connesso.

Stavolta è un regista “veterano”, Dominik Graf, a raccontare le vicende di Faban (che è un cognome), e senza dubbio l’opera anticipatrice di Kastner, piena di ironia e amarezza, è venata da atmosfere fassbinderiane che attraversano il film: ambientato nell’ultimo anno della Repubblica di Weimar, segue il disastro finanziario e sociale abbattutosi su tutto il mondo occidentale con il crack del 1929 di Wall Street e precede di pochi anni l’ascesa al potere di Adolf Hitler, peraltro presente con uomini, idee, pulsioni omicide lungo tutta questa narrazione. Gli ultimi sprazzi di libertà culturale e sessuale attraversavano una città impoverita e impaurita, tra estremismi politici ed erotici (a pagamento e a vantaggio di vecchi signori danarosi e un po’ schifosi, per lo più) e un senso d’insopprimibile decadenza comportamentale, se non proprio morale. Cui iniziava a “porre rimedio” il nazismo, mettendo al bando, anche con l’assassino, tutti I “diversi”. 

Di tutto questo Fabian (interpretato da Tom Schilling) è il testimone prima attivo e stupito, fatalista e ammaliato, poi via via sempre più atterrito e sconfitto, a seguito pure nella sua complessa vicenda sentimentale, tema conduttore delle quasi tre ore del film. Aspirante scrittore, per campare, sempre assai a fatica, fa il copy pubblicitario per un’azienda che vende sigarette, finchè viene licenziato per i troppi ritardi e l’inventiva eccessiva che suscita l’ira e la vendetta dei colleghi. Fabian legge nei bar i giornali pieni atroci delitti e si convince che il declino della Germania, prima che economico e politico, è soprattutto etico. Ma anche lui di notte frequenta il cabaret degli artisti anonimi, dove folli e sguaiati/e performer, seguaci dell’ambiguità ad ogni costo, vengono trascinati fuori dal palco del proprietario tra gli insulti di spettatori entusiasti di tanta abiezione. O si rifugia dal male di vivere in un atelier artistico in cui disincantate modelle, per lo più lesbiche, si vendono a ricchi sadici. 

Fabian strige un’amicizia tragica, ma molto stimolante, con il ricco giovane Stephan Labude (Albrecht Schuch, già vincitore di un Oscar) biondo idealista di idee progressiste sconvolto dalla mancata accettazione nei ranghi dell’Accademia – già infiltrata da loschi hater legati al nazionalsocialismo – per la quale ha rinunciato alle sue aspirazioni letterarie. Ma la relazione centrale del film, che porta luci e ombre nella vita di Fabian fino a un’imprevedibile conclusione, è quella con la bellissima e assai poco convenzionale Cornelia, (Saskia Rosendahl), che nel mondo del cinema è entrata dalla porta dell’ufficio legale ma in realtà è una aspirante attrice disposta a vendere anima e corpo a un produttore grasso e voglioso (in perfetto stile Grosz) per coronare i suoi sogni. In un tortuoso, burrascoso, a tratti estenuante incontro /scontro, i due si amano, a modo loro, fino alla fine. Un’ efficace esempio di involontaria autodistruzione. Annota il regista: “Quando l’amore lo travolge come un’onda, lui ha ormai perso le speranze, è in guerra con se stesso e il periodo storico in cui vive. Fino alla fine, Fabian resiste a conformarsi a quel mondo sempre più crudele, e non “impara a nuotare” (frase pubblicitaria che appare più volte nel film) in queste acque burrascose. Ciò causerà la sua fine, ma sarà il fondamento della sua dignità”.

Graf, regista dalla lunga frequentazione televisiva, del romanzo ha conservato soprattutto la propensione per i tagli rapidi dello stile di scrittura, cercando di darsi un ritmo sincopato e un’estetica sperimentale, tra l’espressionismo e il 68, aiutato dall’ottima montatrice Claudia Wolscht e dal co-sceneggiatore Constantin Lieb. Grazie all’eterogenea abilità di recitazione dei tre protagonisti, chi narcisista estroverso, chi riflessivo e immaginifico, del resto sulla scia dei loro personaggi, e nonostante qualche lungaggine, Fabian, già apprezzato alla Berlinale 2021, è tutto sommato un riuscito esperimento di contaminazione cine-letteraria. 

Fabian, di Dominik Graf, con Tom Schilling, Albrecht Schuch, Saskia Rosendahl, Michael Wittenborn, Petra Kalkutschke, Elmar Gutmann, Aljoscha Stadelmann, Meret Becker