Baker e Didion: solitudini in California

In Letteratura

Joan Didion e Dorothy Baker in “Run, River” e “Cassandra al matrimonio” celebrano la ribellione del desiderio e gli ultimi paradisi perduti

Immaginiamoci di essere a un reading. Io sono quella ragazza bionda accanto alla porta con l’aria lievemente smarrita. Nonostante sia a stento l’ora dell’aperitivo, l’atmosfera è già fumosa e un po’ addormentata. Dopo gli impacciati rituali di benvenuto, mi siedo nel centro della sala come fossi l’oliva del cocktail e un po’ controvoglia comincio a sfogliare i romanzi che ho scelto per l’occasione: Cassandra al matrimonio di Dorothy Baker e Run, River di Joan Didion.

Immaginiamoci di essere sotto al sole “ambrato della California” che “accende il cielo di un’estate torrida e interminabile”. Immaginiamoci “il luppolo verde” che “matura avvinghiato ai filari”. Immaginiamoci “come splendono le stelle al ranch nelle notti d’estate, dove non ci sono altre luci a offuscarle”. Poi chiudiamo gli occhi e dimentichiamoci del sogno californiano. Piuttosto, immaginiamoci l’incubo nel quale si è trasformato.

Le storie sono all’apparenza molto semplici. Due ardenti estati in bilico tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60. In Cassandra al matrimonio, la protagonista è una giovane donna con nessuna certezza nella vita se non quella di volerne uscire, in viaggio verso il ranch di famiglia per il matrimonio della gemella Judith. In cuor suo, Cassandra vorrebbe convincerla a rinunciare. Perché – come afferma lei stessa – avrebbero “dovuto essere la stessa persona”, Judith e lei. Ma: “essere come noi non è facile, si tratta di impegnarsi incessantemente per riuscire a essere il più diverse possibile; perché, affinché ci possa essere un ponte, prima deve esserci uno spazio da attraversare.” Ed eccolo, il dramma esistenziale di Cassandra, perché mentre per lei “il vero progetto è il ponte”, per Judith ciò che conta è “quel che c’è al di là di esso”.

In Run, River, Lily Knight ha ceduto alle aspettative di tutti, rinunciando alle proprie, ed ha sposato Everett McClellan, eppure è infelice. A nulla servono le frivole feste al ranch, il vuoto giro d’amanti, la nascita dei figli. Neppure la vicinanza esistenziale della sorella di Everett, Martha – figura tragica già di per se stessa, ma anche in quanto da lui forse troppo amata, o viceversa – riesce a lenirle la pena del vivere. “Esprimi un desiderio e poi realizzalo”, così le diceva suo padre quando era bambina, ricorda Lily. “E se decidi di essere la più felice puoi esserlo”. Ma appare fin da subito che non sarà affatto così.

Adesso, immaginiamoci i punti di contatto narrativi dei due romanzi. Innanzitutto, i ranch di famiglia, regni – cioè – privati, e pertanto isolati dal resto del mondo, dove le regole che governano i rapporti umani non sono contaminati dalle convenzioni mondane e restano immutabili e in qualche modo inconoscibili. Ma in due ambienti in cui nulla cambia, a continuare a vivere come si fa? E perché lo si dovrebbe fare? Cassandra non trova le sue risposte. Lily non trova le sue risposte. E nonostante l’incessante presenza dell’elemento liquido in movimento (il fiume, i tuffi in piscina, il rovesciarsi di alcolici), le loro vite sembrano ostinatamente immobili. Entrambe provano a ritagliarsi un ruolo tra quelli previsti nella commedia (o per meglio dire, tragedia) della vita, senza riuscire minimamente a cucirselo addosso, finché Cassandra non tenta il suicidio, come aberrante regalo di nozze alla sorella, “pegno”, cioè, del suo autentico “amore”, mentre Lily si lascia appassire nella propria indolenza, provocando, però, la morte di chi le sta accanto, in una impressionante vicinanza geografica, temporale ed esistenziale.

In due splendidi esempi di realismo poetico – l’uno decorato da lirismi che fanno vibrare le corde più autentiche di ognuno di noi (Run, River), l’altro più nervoso, mordace, capace di sarcasmi che inducono alle lacrime non solo i più empatici (Cassandra al matrimonio) – i romanzi si contraddistinguono per una narrazione fluida, spedita, nonostante poca punteggiatura, periodi lunghi e pensieri che si alternano a dialoghi e a ricordi, in un tutt’uno di sentimenti ambivalenti.

Sullo sfondo, due melodrammi famigliari esemplari (matrimoni terribilmente infelici, rapporti ossessivi ed incestuosi tra fratelli, omicidi per rabbia e gelosia, catartici suicidi o tentativi di suicidio). Nel bel mezzo, la California rurale degli anni ’60, minacciata dai cambiamenti ma non ancora sopraffatta dalla modernità, luogo ancestrale nel quale può persistere “un tenace e pernicioso senso di nostalgia”, unico scenario immaginabile per far resistere sentimenti così brutali e semplici. Infine, dritto davanti a noi come un pugno, il cuore del problema: l’impossibilità, cioè, di combattere contro un desiderio che nasce dal profondo e che anche quando viene a galla non si riesce mai a conoscere fino in fondo.  Un desiderio invincibile, che l’impersonale pluralità del presente ci obbliga a mantenere segreto, oscuro. Quel sentimento tremendo di alienazione, intendo, che percepiamo ogni volta che le parole degli altri ci sembrano inconcepibili. “Ti prego, aiutala a fare le scelte giuste ogni giorno della sua vita”, per esempio. Ma potrei proseguire all’infinito, tanto più in quest’epoca oppressa dal brusio di sottofondo dei social network che restituiscono ad ognuno di noi un’idea molto più monolitica e banalizzata della diversità umana e delle sue declinazioni del desiderio. D’altronde, è il pericolo che incombe quando i legami sociali si stabiliscono attraverso l’identificazione reciproca. È quello, cioè, che potremmo definire “la miseria psicologica della massa”. In altre parole, se nella nostra percezione i desideri autentici non trovano pienamente posto all’interno delle nostre strutture sociali, forse sono le strutture sociali che hanno bisogno di essere ridefinite, non i desideri.

Era l’estate di qualche anno fa, quando ho comprato Cassandra al matrimonio. Ero in viaggio. E poi l’autunno successivo, a casa, ho letto Run, river. È indicativo che mi ricordi ancora i periodi esatti. Mi ricordo molto altro, a essere sincera. È tutto come cristallizzato. Pollinizzato nella memoria. E mi piace che ogni cosa resti così, immobile nel ricordo. Ma qual è – infine – qual è il filo rosso che unisce questi due romanzi? Come dichiarò Conrad a proposito di alcuni suoi racconti, potrei affermare anch’io la medesima menzogna, dicendo che “l’unico legame” è “per così dire, geografico”. Ma intuiamo bene che non può essere così. Piuttosto, proseguendo nel parafrasare l’autore de La linea d’ombra, potrei ammettere in ultimo la verità, e cioè che “i fatti essenziali” che riempiono di significato queste due storie rievocano “qualcosa di più grande, seppur di meno preciso: […] il carattere, gli ideali, le sensazioni” dei miei primi trent’anni “di vita indipendente”.

Come ha detto una volta Faulkner: “Il cuore umano in conflitto con se stesso può fare da solo una buona storia, perché è l’unica cosa di cui valga la pena scrivere”. Questa sera potrei essere d’accordo.

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