Ai confini del melodramma con la Traviata di Gatti/ Martone

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L’Opera di Roma scommette di nuovo sul direttore d’orchestra e sul regista che hanno brillantemente portato al successo il “Barbiere di Siviglia” a dicembre. E che, con un milione di spettatori su Rai3, pare abbiano fatto centro anche col celebre melodramma verdiano. Ora su Rai Play

In fondo è semplice capire se un’opera in tv abbia avuto successo o meno. Prendiamo La traviata dell’Opera di Roma, il film di Mario Martone con direzione di Daniele Gatti trasmesso venerdì scorso su Rai3 e ancora disponibile su Rai Play: quasi un milione di telespettatori, l’equivalente di più di seicento recite a Costanzi esaurito, per chi ancora si ricorda cosa voglia dire. Insomma numeri che parlano da soli. Anche meglio del bel Barbiere di dicembre, sempre a firma di Gatti e Martone che con questa Traviata mettono il loro marchio sul dittico nazionalpopolare per eccellenza, consentendoci di riflettere su senso e significato del teatro oggi.

Teatro che in effetti è il vero protagonista di entrambi i film, usato in ogni suo angolo dalla sala ai foyer, e poi palchi, retropalchi, salotti e salottini, rianimato per qualche ora non tanto per ospitare le due opere, ma per interagire con esse come scenografia naturale, come testimone silenzioso ad esempio della morte di Violetta, chiamata al proscenio da un pubblico invisibile prima di accasciarsi davanti alla buca d’orchestra vuota, senza nemmeno il direttore sul podio, come se la musica, i tromboni che annunciano la sua morte, le voci dei cari che la circondano, fossero solo un’allucinazione. La falsa guarigione di Violetta, che si sente rinascere a un passo dalla fine col rarefatto accompagnamento di Gatti, è forse il momento più ispirato di tutto il film di Martone, che da anni indaga le possibilità del linguaggio melodrammatico in scena e sullo schermo.

Prima di tutto nessuna attualizzazione: Martone vuole una Traviata in costume. La sala ospita le feste di primo e second’atto proprio come avveniva a volte con i balli in maschera dell’Ottocento, quando a teatro non si andava certo solo per l’opera. Anzi spesso si preferiva rimanere nel ridotto a giocare a carte, ragione per cui la bisca del second’atto, in questo contesto, è del tutto pertinente. Va detto che i palchi invece non venivano usati come vere e proprie camere di bordello – o almeno non sempre –   come si vede nelle primissime scene: la figura di Violetta non viene in alcun modo edulcorata, giustamente, e non serve nemmeno ricordare la famosa lettera di Verdi (“Una puttana deve essere sempre puttana”) per spiegare la scelta. 

Mancano in questa Traviata i famosi “sottili spunti veristici” di cui Fedele d’Amico parlava a proposito della mitica serata Visconti-Callas (che poi, chissà come doveva essere veramente). Lo spettacolo creato da Martone, perché di creazione si deve parlare, poggia su suggestioni più simboliche che realistiche: le pile di cappotti maschili gettati sul letto, peraltro onnipresente sul palcoscenico come richiamo nell’ordine di piacere, amore e morte, come già nella sua Luisa Miller alla Scala nel 2012; le tele dipinte dell’idillio tra Violetta e Alfredo smontate personalmente da Germont durante il grande duetto del second’atto; il grande lampadario luccicante abbassato al centro della sala, che incombe sul destino della protagonista al pari dell’ipocrisia borghese che la circonda. Non mancano alcuni passaggi più didascalici, come il cappotto di Germont che Violetta indossa quasi fosse una camicia di forza, mentre cede alle manipolazioni dell’uomo. Ma rimane indubbio il fascino di una lettura con cui Martone riesce a smitizzare questa storia, che diventa ancora più struggente proprio perché ci sembra generica, casuale, qualsiasi, televisiva più che cinematografica, quindi perfettamente adatta al mezzo per cui è stata pensata.

E a questa esigenza si allinea anche la direzione limpida e discreta di Daniele Gatti, che pare sempre in cerca di uno stile antiretorico e conciso: tempi serrati, ritmo incalzante, sonorità asciutte e trasparenti. Così come avviene per la sprezzatura di Lisette Oropesa, a cui non interessano edonismi dimostrativi né soluzioni affettate, come se in certi casi funzionasse di più nascondere l’arte che esibirla.

Non c’è dubbio che il risultato possa disorientare, che “Amami, Alfredo” possa sembrarci privo di pathos, di espressione, persino “buttato via”, ma questo può essere anche più giusto nel caso di una melodia di Verdi, in particolare di una melodia di Traviata, soprattutto in quel punto: una frase che non deve essere bella di per sé (sempre d’Amico fa notare che in Pia de’ Tolomei di Donizetti si trovano le stesse identiche note, e nessuno ci fa caso), ma che va considerata nella sua contingenza, nella sua collocazione all’interno di una scena, come un fremito momentaneo. Perché la vita musicale di Violetta è fatta di sospiri, di interiezioni, di palpiti che in effetti hanno ben poco di melodrammatico, ma nascondono l’intima casualità del suo dramma. Nel cast anche Saimir Pirgu, Alfredo corretto ma un po’ sommario, e Roberto Frontali, che con il suo Germont si conferma interprete di grande intelligenza musicale.

Immagine di copertina: Lisette Oropesa (foto di Fabrizio Sansoni)

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