La vita che ti diedi, attraverso le parole

In Copertina Teatro, Teatro

Daria Deflorian e Federica Fracassi dirette da Stéphane Braunschweig mettono in scena a Torino “La vita che ti diedi”. Un Pirandello tutto al femminile per un duetto di prime donne, che raccolgono il testimone delle più grandi

A passi felpati ma decisi Stéphane Braunschweig, direttore dell’Odèon di Parigi, ha messo in scena allo Stabile di Torino, tra le decorazioni antiche del teatro Carignano, sede ideale, “La vita che ti diedi” di Luigi Pirandello, proseguendo il percorso già avviato con “Vestire gli ignudi” e “I giganti della montagna”. Uno spettacolo spartano, un horror dell’anima, una scavatrice continuamente in movimento dentro le parole, la lingua e il linguaggio, dell’autore che racconta la disperazione di una madre di fronte alla perdita del figlio con probabilità e imprevisti quali l’arrivo della compagna del ragazzo, che non sa nulla della tragedia (così definisce l’opera lo scrittore) e della di lei madre. Ci sono molte mamme in questa bella commedia, un macigno che ci cade addosso con tutta la forza di un dolore che non si può esprimere con le parole: la madre tenta di tenere in vita la memoria del figlio continuando a parlare di lui, rifiutando l’idea della scomparsa, anche con la paziente sorella (che fa da seconda mamma), ma in realtà il giovane, che se ne era andato da casa a vivere la sua vita e il suo amore, morirà davvero quando la madre finirà di raccontarlo, potenza della dialettica: allora con un colpo di teatro strepitoso, l’evento glaciale si avvera. Preceduto da alcune novelle scritte tra il 1914 e il 1916, “La vita che ti diedi”, titolo un po’ melò rispetto alla media pirandelliana, era stato scritto per Eleonora Duse che in realtà non l’ha mai recitato, ma l’ha portato in scena al Quirino di Roma nel 1923 Alda Borelli, passando poi il dolore a grandi attrici seguenti, nel corso del tempo, da Irma Gramatica a Paola Borboni, da Sarah Ferrati a Valeria Moriconi fino a Daria Deflorian, di ineccepibile crudezza esistenziale nel comunicarci “l’incomunicabile” affiancata da una grande Federica Fracassi, in una doppia parte che realizza con il gusto della mutazione ma non del travestimento, duetto di prime donne in un testo tutto al femminile, come molti di Pirandello.

Sono l’osservazione della parola e lo studio delle vocali, delle pause, dei dittonghi, con un’attenzione maniacale al ritmo delle frasi e alla musicalità un po’ dodecafonica che ne segue: è un po’ la stessa attenzione che misero I Giovani (De Lullo, Falk, Valli) nella loro sublime interpretazione di alcuni testi, contestualizzandoli scenograficamente nell’art dèco e nel liberty con l’aiuto di Pizzi. Qui siamo in un ambiente spoglio, una specie di camera mortuaria con un tendone nero, un letto in fondo con un groviglio di lenzuola che sembra macabro, una panca, ma è una scena che si svela poco alla volta, con un corridoio in proscenio, alcune sedie d’epoca e i sofferti movimenti delle donne: la sintonia d’intenti è anche merito del regista che funge anche da scenografo. Donn’Anna e donna Fiorina sono le prime in scena e la madre tenta di spiegare la resistenza vitale dell’immagine del figlio che non scompare dal suo radar affettivo, siamo nel mezzo di uno studio sui rapporti tra i vivi e i morti: questi sono vivi finchè chi rimane li pensa, li ricorda, parla di loro. Per Anna il rifiuto del lutto parte da lontano, lei il figlio l’ha perso già quando si è allontanato dal nido materno, quando ha iniziato a rifiutare la vita che la madre gli diede. L’unica forma di sopravvivenza è negare la morte stessa, o comunque immaginare “another end”, pensare di parlargli, di trovare una mediazione, tema attualissimo se si pensa ai molti drammi e film scritti proprio sul “dopo” che volendo si può chiamare anche metaverso. Per fare rimanere in vita il figliolo, la madre finisce di scrivere al suo posto la lettera alla fidanzata, nel suo superbo gioco di follia torna il miglior Pirandello, quello dove non si sa mi dove sia nascosta la verità e se abbia senso questa stessa parola. La scena del teatro mette in scena la follia nelle sue mirabili e molteplici forme, di cui la più nota è quella che si sviluppa in “Così è se vi pare”, ma è poi l’intreccio dei diversi gradi di immaginazione e razionalizzazione che creano la stessa drammaturgia, fino a rasentare la poesia, il grido di una perdita.

E questa commedia può scatenare un diluvio di postille e glosse freudiane edipiche, la psicanalisi è già presente in Pirandello in modo naturale. Che il tema sia sentito anche oggi lo dimostra un film dimenticato del 2015, “L’attesa”, con una stupenda Juliette Binoche, debutto di Piero Messina film che ha molto a cuore questo tema del dopo. Nello spettacolo al Carignano, in scena fino al 28 aprile, si fanno molto applaudire da un pubblico che segue in religioso silenzio, oltre le due grandi interpreti citate, Fulvio Pepe, Enrica Origo, Caterina Tieghi, Fabrizio Costella, Cecilia Bertozzi.

Foto Luigi De Palma

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