Ma come è inquieto il giallo a Milano: 4 romanzi tra noir e mistero.

In Letteratura, Weekend

Un uomo che ricorda tutto ma si costringe a dimenticare la perdita del suo più caro amico; un quasi boxeur che torna nella palestra in cui ha cominciato a precipitare; una vicequestore che non continua a smarrire il filo dell’indagine sulla morte di una bambina; tre vecchiette terribili e una giornalista agguerrita tra burraco e una scia di sangue. Milano è la scena perpetuamente in moto dentro la quale si muovono i quattro nuovi romanzi di Silvia Bottani, Elena Mearini, Marina Visentin e Sandra Bonzi, e ancora una volta presta le sue strade alle ombre.

Silvia Bottani, Un altro finale per la nostra storia (Sem)

Da quando il suo migliore amico Fabio ha deciso di scomparire nel nulla, Mauro Massari ha stabilito di compiere sul suo cervello una faticosa e perfetta opera di disancoramento: congelare ogni ricordo di quell’amicizia che ha così profondamente segnato la sua crescita, troncandola e deviandola all’improvviso, è in realtà una azione di inaudita violenza, soprattutto per quello che è il suo speciale talento – ovvero: ricordare.
Mauro Massari è infatti un “atleta mentale” di caratura internazionale, ma la sua vita, fatta eccezione per le gare di memoria, è silenziata in una zona grigia a felicità controllata: fallito il matrimonio, liquidata l’azienda, le sue giornate sono circoscritte a minimi rapporti di tipo pratico, legati ai lavori saltuari di cui campa il necessario per sostenere la crescita della figlia Martina.

Così quando, senza preavviso, la sorella di Fabio lo contatta dopo anni, e gli chiede aiuto poiché il mistero di quella scomparsa continua a tormentarla, ripercorrere insieme a lei i luoghi del passato privato di quella amicizia innesca un innamoramento che è insieme dolore a ritroso e dispercezione. Più Mauro desidera riancorare la sua vita al calore, più Bianca lo attira in un labirinto di intrichi e segreti di famiglia.
Intorno, luoghi nei quali i vivi decidono l’architettura dei morti (il Cimitero Monumentale), la lunghezza e la prospettiva dello sguardo (il parco degli animali), la fine del mondo abitato (le ultime propaggini della città, prima della via Emilia); e poi Città Studi, la Martesana, la Cineteca Luce, i lunghi viali alberati di una Milano che assorbe e mette in comunicazione ogni passato: tanto l’utopia di Metanopoli quanto i diorami custoditi nel neogotico palazzetto del Museo di Storia Naturale. 

In Un altro finale per la nostra storia (Sem) Silvia Bottani usa una lingua che è una ipnosi: un flusso di coscienza  dentro al quale vero falso e finto si mescolano di continuo, mentre i piani del pensiero mettono a nudo complessità, ombre, ferite e debolezze umane. 

“Quante cose non si sanno della vita di chi ci è accanto. Tutto quello che si accumula in anni di conoscenza si riduce a un fraintendimento, hai detto. Ognuno è un mistero, per se stesso non meno che per gli altri. Però io credo che si possano conoscere delle cose, non è tutto un malinteso. L’errore piuttosto è pensare alle persone che amiamo come delle forme cristallizzate. Siamo un processo che si manifesta nel tempo. Anche noi, in fondo, non facciamo che accadere”

Elena Mearini, Corpo a corpo (Arkadia)

Forse proprio perché Milano è tutta una proiezione di domani che potrebbero essere o non essere mai, serve un luogo in cui il tempo appare immune dal ritmo ordinario dei giorni per permettere a Stefano Santi di rimettere insieme i suoi frantumi di essere umano.
Perché Stefano, specializzato nel tradire il destino che sembra appena esserglisi benevolmente apparecchiato davanti, ha perso molte volte sé stesso, prima di tornare in quella palestra di boxe, nella periferia sconfinata che tutto inghiotte e tutto confonde: è stato un ragazzino quasi perduto, è stato un giovane boxeur quasi professionista, è stato un insegnante di liceo quasi impeccabile.

Il mattino che, in fuga dal suo spaventoso presente, forza la maniglia che ben conosce per entrare in quello che era stato il tempio del suo primo perduto riscatto, sa bene che l’unica voce alla quale affidarsi è anche quella che ha a suo tempo già deluso e abbandonato.
E Mario, il suo ex allenatore, lo spirito guida di quel luogo che è, insieme, rifugio di estreme passioni e terreno del possibile, è di nuovo l’orecchio che ascolta, e la voce che lo sprona a mettersi infine di fronte a sé stesso, per intero, poiché chi tiene gli occhi chiusi diventa complice del buio.
Inchiodarsi davanti alle proprie scelte, osservare ogni scarto messo in atto, ripercorrere l’incontro con Marta, rileggerne il diario, forzarsi a riguardare in faccia il ricordo della sorella di lei, Ada: in dodici round, uno per ogni capitolo, la ricostruzione di quel micidiale meccanismo distruttivo che è stata la sua esistenza rivela a Stefano la tracotanza e l’ambizione al controllo, la seduzione del potere, il gioco di scatole cinesi nelle quali le cause e le conseguenze si aggrovigliano.   

Così, in un linguaggio che mescola lirismo e allucinazione, abissi interiori e sentenze brucianti, Elena Merini in Corpo a corpo (Arkadia) richiede alla sua voce narrante di non risparmiarsi di fronte a nessun colpo: sul ring c’è una lotta per la vita, ed è la sopravvivenza stessa del potersi chiamare umano.

“Lucido, devi restare lucido e vigile, come si fa nei tempi morti del ring, quando i colpi non partono e gli avversari si studiano. Altrimenti come lo capisci l’istante giusto e il punto esatto in cui colpire? Altrimenti come la decidi la strada che tra qualche ora dovrai prendere? Il sole si è alzato, e non si rimette certo a dormire per farti un favore”

Marina Visentin, Gli occhi della notte (Sem)

Milano d’inverno. Affori, per la precisione, lungo via Pellegrino Rossi; il parco dei giochi diventa il luogo dell’incubo: lo scenario di un rapimento, che inghiotte la vita di Cinzia, e restituisce angoscia e rancori, sospetti, incontenibile disperazione.
Poi, all’improvviso, dentro i sentieri dell’area verde nella quale convergono i resti di sei diverse periferie: una scarpa rosa, la stringa slacciata, il corpo della bambina che sembra un insulto guardare.
Per la polizia un caso che non vuole farsi risolvere, per la famiglia un orrore, per la comunità un inciampo imbarazzante e angoscioso.

Così comincia Gli occhi della notte di Marina Visentin, pubblicato da Sem: thriller di inchiesta serrato, ambientato in una città dimentica di glamour e luci, tra i neon della questura e traffico che non conosce requie. A condurre le indagini è Giulia Ferro, vicequestore: è lei a interpellare le telecamere che non inquadrano ciò che serve, mentre il tempo smette di avanzare ributtando le indagini in una concentrica serie di piste ellittiche.
Una bambina è morta e chi l’ha uccisa non si sa.
I pedofili? l’ex marito di una maestra? il padre troppo ambiguo? E i disamori della zia? Il contegnoso silenzio della Preside? Un vistoso ragazzo? Un uomo col cane?

Siamo subito dentro la testa di Giulia Ferro, ma Giulia Ferro non parla tra sé: parla con noi.
E il suo tormento è: l’impotenza.

“Le bugie degli onesti sono le peggiori. Perché fai fatica a scovarle, ti buttano fuori strada, ti intralciano e nemmeno sai perché. E neanche loro lo sanno, di solito, perché ti raccontano una bugia. A volte lo fanno soltanto per un repentino moto di vergogna. Per qualche motivo sono in imbarazzo – per qualcosa che nemmeno lontanamente somiglia a un reato – e decidono che non vogliono fartelo sapere, che deve rimanere nascosto. E così ti raccontano la prima scemenza che gli viene in mente. E quando va bene è solo un piccolo ostacolo, un rallentamento, un paracarro buttato di traverso sulla strada. Quando va male vuol dire finire del tutto fuori strada, procedere per un tratto, lungo o breve che sia, in una direzione sbagliata, e ritrovarsi ad annaspare senza nemmeno un perché”.

Sandra Bonzi, Il mio nome è due di picche (Garzanti)

Elena Donati fa la giornalista, ma ogni giorno che entra in redazione il senso del suo lavoro sembra scapparle di mano, scippato dalle ultime mode comunicative che tanto piacciono al nuovo capo.
Sarà che non è più una ragazzetta, che dalla famiglia i figli hanno ormai raggiunto l’età per andarsene, che la madre Margherita – tra corsi di tango un po’ âgé e tornei di burraco – è una presenza tracimante e incontrollabile da quando ha lasciato suo padre, e che proprio suo padre, sull’onda di un nuovo fiammante amore, la tartassa di confessioni al di là di ogni umano pudore filiale: ma, insomma, quel senso sottile di straniamento prende piede nelle sue giornate milanesi.
Dov’è finita la fiamma della sua passione? Può una vecchia amicizia trasformarsi in quello che non è mai diventata in gioventù? E il suo corpo, ha ancora i numeri per sorprenderla?

Quando la donna che abita sopra l’appartamento di sua madre viene trovata uccisa, quello che Elena chiama il suo quinto senso e mezzo doppia ogni contingente dubbio esistenziale e la costringe a mettersi in moto dentro una indagine nella quale dovrà districarsi tra l’imperante richiesta di succosi particolari scandalistici dettata dal suo capo e le avventate ipotesi di Margherita e delle sue due anziane amiche, tutte immancabilmente appassionate di storie crime.

Tra bottiglie stappate per dimenticare, per ricordare, per ragionare, per meditare, Sandra Bonzi mette in moto in Il mio nome è due di picche (Garzanti) un giallo brioso perfettamente estivo nel quale si mescola la geografia di una Milano centralissima (via Settembrini, lo storico Arci Bellezza, il Mercato Centrale) e il moto perpetuo di una compagine umana nella quale ognuno ha il suo personale lessico famigliare: dai proverbi in dialetto tagliente alle raffiche di WhatsApp con emoji, dalle inversioni del gergo giovanile del momento ai lunghissimi nomi indiani adottati per amor di yoga, da Vasco Rossi masticato a fior di labbra alla nevrotica combinazione ringhio-morso del volpino di Pomerania Gregorio.

“L’unica cosa che migliora con gli anni è il vino. Punto. Gli esseri umani – a parte rarissime eccezioni – no. Si irrigidiscono, anzi incancreniscono nelle loro convinzioni. Hanno lo sguardo rivolto verso quella che reputano essere – senza eccezioni – l’età dell’oro, cioè il passato. Se va bene, diventano ripetitivi e pedanti, strenui difensori di un’infinità di piccole e inutili manie. Se va male, diventano pure molto egocentrici ed egoisti. Chi vorrebbe avere a che fare oggi con un Jim Morrison ottantenne? Nessuno. Perché – nove su dieci – sarebbe insopportabile”

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