“Lo spregio” ovvero il male annunciato nel romanzo di Alessandro Zaccuri

In Letteratura

“Lo spregio” di Alessandro Zaccuri è un romanzo inquietante di cui si conosce già la fine. Perfetto per questi anni dominati dalla simultaneità, dalla connettività, da tragedie consumate in diretta e omicidi che durano il tempo di un titolo.

 

Non finirà bene. Non occorre nemmeno farsi venire un dubbio, perché Lo spregio, ultimo libro di Alessandro Zaccuri, edito da Marsilio, è uno di quei romanzi che il finale lo dichiara subito. Potete anche insistete a fare gli sprovveduti, a ignorare la minaccia blandamente mascherata nel titolo, a non fermarvi sul tormento della copertina, a non cogliere il senso esplicito della frase di apertura (“Dopo di che non ci fu lotta, ma solo punizione” del Kafka più lucido, eco disperato e scoperto della Lettera al padre).
Potete farlo. Ma, tanto, non vi riuscirà sottrarvi all’inquietudine che, fin dalle prime righe, questa storia vi getterà sulle spalle, come un’ombra. E che vi accompagnerà, senza mai distrarsi da voi, proprio come un’ombra, fino all’ultima delle centoventi pagine di cui è formata.
Perché infatti dovremmo leggere un libro di cui sappiamo già la fine, se non perché è il come a questa fine si arriva che ne costituisce la materia viva, la sfida, il cuore – e non il cosa essa sia (ché, anzi, la fine, dentro il contesto, altro non è che l’ultimo di una serie concatenata e consequenziale di eventi).

Il primo, e il più profondo, degli spostamenti di significato che Alessandro Zaccuri opera è esattamente questo: in anni dominati dalla simultaneità, dalla connettività, da tragedie consumate in diretta e omicidi che durano il tempo di un titolo, ricordare che a ogni azione consegue reazione risulta un atto di affermazione coraggiosa.
E, poiché, nella catena delle cause e degli effetti, nulla nasce a caso, si parte con un figlio che non è un figlio, una famiglia che non è una famiglia, un bar che frutta bene, ma non come bar.
Anche il luogo fa la sua parte. In una civiltà di confine (un paesino della Svizzera, negli anni Novanta), dove le cose vanno più lente, tutto diventa subito paradigma: il freddo è freddo, una parola è sempre di troppo, le domande cadono prima di essere fatte.

Così si crea la rete delle menzogne originarie: il figlio pensa di essere legittimo, la famiglia appare come tale, il bar esiste, per eredità, da sempre. Potrebbe filare tutto liscio. Potrebbe non esserci nessuna notizia.
Eppure, dove c’è un vuoto, i corpi si muovono; e si muovono le emozioni, le ambizioni. I desideri.
Tanto più nella negazione di un affetto fondativo, come quello tra padre e figlio, il vuoto diventa una presenza costante con cui fare i conti per tutto il tempo della crescita.

«Suo padre non lo toccava mai, né per un abbraccio, né per una sberla. Forse perché è così che si fa, da uomo a uomo»: ed è così che Angelo, il protagonista del romanzo, il figlio non figlio, viene educato dal Moro. E’ così che, tra umanità e violenza, cresce il distacco tra i due: di perdizione in competizione.
Quando arriva il nuovo amico, il Salvo dai soldi facili, annegato dagli affetti smaccatamente esibiti della famiglia, che parlano una lingua diametralmente opposta a quella del gelido Nord (e non meno crudele e ricattatoria), l’innesco è pronto: ad Angelo non resterà che alzare la posta nell’ansia di compensare, compensare sempre l’assenza delle parole, dei gesti, dell’affetto.
Cercherà l’amicizia di Salvo, vorrà essere Salvo, vorrà essere altro da Salvo, vorrà essere oltre Salvo.

Nel micidiale meccanismo che, di abbandono in abbandono, lo porterà nel suo personale viaggio all’inferno, Angelo scopre il male – e nulla verrà risparmiato, in questo romanzo di osservazione e di esperimento: la narrazione asciutta costringe il lettore ad occhi spalancati, affacciato sull’officina umana della distruzione, a vedere montare in ogni fase la macchina della fine (e, in questo, l’autore fa rivivere tutta l’oggettiva forza dei migliori romanzi naturalisti).

In questo universo dominato dall’elemento maschile, la donna, la debole per definizione e per ruolo, che dà amore senza esserne richiesta, che ha da obbedire prima di pensare, ha una parte vinta in partenza: priva di femminilità (poco più che una sguattera da chiudere in cucina, con la bocca cucita e un fazzoletto sempre nuovo da riempire di lagrime), o sciupata di femminilità (prostituta, tossicodipendente, ragazza madre con il pallino del romanticismo perduto, improbabile concubina da comandare a bacchetta). Per lei non c’è partita, nell’agone dei soli uomini: la sua sconfitta, il suo essere fuori, il suo esibito disinteresse, la sua esclusione ne fanno, proprio per questo, una resistente.
Ed è proprio a lei, non a caso, che, alla fine, viene legato addosso l’unico possibile granello di speranza.