Vendetta, tragica vendetta

In Teatro

Foto © Masiar Pasquali

Il Piccolo inaugura la stagione con la Tragedia del Vendicatore, finalmente attribuita a Middleton. Un bello spettacolo, ma nel ’70 Ronconi si era divertito di più…

FOTO DI MASIAR PASQUALI

Di che cosa parla la Tragedia del vendicatore di Thomas Middleton, l’autore elisabettiano che per primo Luca Ronconi fece conoscere in Italia con I Lunatici? Parla certo della Londra dei suoi tempi cupi, caotici, truci, l’epoca di Shakespeare – ma non in love, ma parla anche dei sentimenti eterni dell’uomo, dando la precedenza assoluta all’odio e alla vendetta, come annuncia il titolo. Declan Donnellan, regista inglese con un suo metodo e tre sue compagnie itineranti nel mondo – una british, una russa, una francese e chissà… forse prossimamente anche una italiana – non vuole recapitare messaggi, fa parte di quei registi che non si considerano postini, e dice che tra recitazione e vita dà sempre la precedenza alla vita. Vita vuol dire persone. Persone vuol dire spettatori.

E Donnellan, Leone veneziano alla Biennale 16, crede fermamente che ogni spettatore veda il suo Vendicatore e se lo adatti alle proprie misure esistenziali. Middleton faceva parte della grande famiglia elisabettiana, di cui Ronconi fu ammiratore: non solo I Lunatici ma anche il Ford di Peccato che sia una sgualdrina ed anche questo Vendicatore che quando lo allestì, nel 1970, era ancora attribuito a Torneur e solo agli inizi del nuovo millennio sofisticati calcoli quantistici (uso delle parole) hanno deciso che era di Middleton.

Come se improvvisamente ti dicessero che Arlecchino non è più di Goldoni ma di Gozzi o che Casa di bambola  non è mai stato scritto da Ibsen, ma da Strindberg. In realtà, dice Donnellan, quella del periodo era una grande famiglia in cui gli autori-attori si scambiavano i pezzi, li modificavano sera per sera – ed anche lo spettacolo al Piccolo subisce piccoli interventi e modifiche registiche ogni giorno – e li portavano al vaglio del pubblico, come in un grande varietà tragico in cui tutto era possibile. L’ingresso del Vendicatore-Vindice col teschio era un palese riferimento alla famosa scena dell’Amleto, tanto che allora, mi dicono alcune medium, il pubblico rideva come un pazzo perché capiva subito il riferimento all’opera così amata e quindi anche invidiata e odiata. In fondo il protagonista del Vendicatore è a suo modo un Amleto, la stessa voglia di vendetta, solo che l’intrigo è ancora più complicato perché si svolge in una corte italiana cinquecentesca (via dalla pazza folla british per paura di ritorsioni regali) dove succede di tutto e di più e i dieci comandamenti vengono voluttuosamente e ripetutamente traditi.

Uccidere, desiderare e stuprare la donna d’altri, dire e ridire falsa testimonianza, rubare e nel grande complotto del Duca e dei suoi figli nessuno si salva: difficile dire chi è l’assassino, perché sono in molti, tutti. Più facile dire chi non lo è. In questa tragedia che sembra appartenere molto anche all’oggi e che si riferisce alla perenne corruzione dei costumi di potenti, Donnellan riconosce l’eternità dei sentimenti e delle pulsioni e lascia piena libertà di interpretazione ai suoi attori con cui prova subito in piedi e non a tavolino fin dal primo giorno, tutti con la parte a memoria pronta come dovessero andare in scena, si inizia il cammino nella Foresta.

Da qui lo spettacolo si fa, si modifica, nasce rigoglioso ogni giorno, quasi per germinazione spontanea di ogni suo elemento, quindi anche scenografo, costumista etc. Certo l’amore inglese del regista per la cultura pittorica italiana lo porta ad illustrare la scena con gigantografie di famosi dipinti d’epoca, quindi viaggio in Italia? Ma ci fanno notare che tutti i quadri citati sono conservati alla National Gallery di Londra. Pirandello docet, sempre. La trama del Vendicatore non è raccontabile: sembra un horror, gore, un Tarantino dicono con bella superficialità alcuni, ci si sbudella a vista e si tagliano teste fraterne. Nessuno è innocente e nessuno colpevole, tutti pagano e tutti sono salvi, come nel finale dell’Opera da tre soldi. Il Messaggero arriva e salva i perfidi, la storia continua, sempre la stessa. L’intrigo si compone e decompone di azioni parallele, principale quella della seduzione della fanciulla vergine che deve essere data in pasto al figlio del Duca, il maleodorante capo che si fa non a caso baciare le mani, il pater familias che viene privato dei bulbi oculari in scena come accade nel re Lear (abitudine dei tempi e altro riferimento a Shakespeare).

Ma la Tragedia è anche appunto un grande varietà tragico sulla vita in cui il bravissimo protagonista Fausto Cabra (era il più giovane dei Lehman) ogni tanto si rivolge al pubblico, in un a parte in cui confidale verità esistenziali di un testo che non fa sconti, non cerca scuse e rispetto cui Amleto sembra quasi ottimista. È decisamente un gran bello spettacolo (forse non un grande spettacolo) quello con cui il Piccolo ha inaugurato la sua nuova stagione, prima volta di Donnellan con attori italiani, tutti usciti vincenti ed entusiasti ed applauditi dalla prova. Solo qualche uniformità scenografica, qualche monotonia visiva, ma anche un’elettricità che ci induce spesso nella tentazione di paragonare il passato al presente e non vince l’oggi. I traslochi temporali sono una passione anche di Donnellan che aveva spinto Pericle principe di Tiro fino a un ospedale psichiatrico dei nostri giorni. Del resto una battuta di quelle cult dice che la vita e quindi il teatro sono apparenze e il regista aggiunge che i grandi drammaturghi sono tutti affascinati dalla possibilità di ingannare se stessi e quindi anche noi. Cabra è bravo perché alza e abbassa la voce non solo il tono, ma l’intenzione e con lui tutta la compagnia, composta di alcuni valorosi allievi della scuola del Piccolo, ma in cui si fanno notare Pia Lanciotti in doppio ruolo (ma anche Cabra in scena si traveste ed ha un alter ego che è il motore della faccenda). E inoltre Massimiliano Speziani, il Soprano del 500 ed ex Geppetto nel Pinocchio di Latella; e anche intonatissimi Alovisio, Esposito, Bandini, Di Filippo.

Una parola di ricordo, perché c’è un legame fra Donnellan e Strehler ma anche con Ronconi, sul primo e unico allestimento italiano del ’70, quando ancora sul programma di sala tutti parlavano di Tourneur e non di Middleton. Com’è noto Ronconi, con geniale e non gratuita intuizione, aveva allestito la Tragedia con sole donne, le sue attrici predilette, dalla Aldini nel ruolo del titolo alla Piccolo, dalla Melato alla Gassmann, da Liu Bosisio alla Valmorin. Fu un grande insuccesso di pubblico perché era tutto in anticipo sui tempi, anche le nudità coperte da pelosi e volgarissimi cache-sexe del finale, e anche per difficoltà tecniche con la scena che cadde addosso alle attrici alla “prima” al Nuovo a Milano.

Ma nello stesso tempo lo spettacolo è rimasto una data storica delle fondamenta ronconiane, della sua illuminante stravaganza meta sessuale che poi repliche con Ignorabinmus. Mai il gentil sesso fu meno gentile che nell’allestimento della Tragedia. Ma Ottavia Piccolo, testimone oculare, insiste anche sul divertimento del momento, pur con qualche perplessità. Sontuoso, grottesco, lussurioso, lo spettacolo di Ronconi ebbe vita breve e non facile. La mia sensazione, anche depositate al guardaroba memoria e nostalgia, è che tutti, regista e attrici, si fossero divertiti, a diversi gradi di consapevolezza, nel tirar fuori il peggio da questi personaggi emblematici dai nomi simbolici (Vindice, Lussurioso, Spurio, Supervacuo, Ambizioso), una festa grande di misantropia che si ripete allo Strehler. La Tragedia conteneva già i sintomi e le cure omeopatiche delle grandi intuizioni di Ronconi, la magniloquenza espressa e negata insieme nel fasto scenografico in equilibrio precario, il pessimismo globale, il gioco di capovolgere i sessi tanto non cambia nulla, tutti nemici dei dieci comandamenti. Nefandezze plurime e molto psico sessuali con i peggiori istinti messi all’asta nel DNA: massacro morale che Ronconi alleggerisce del peso naturalistico. Beffa, parodia, crudeltà, tutto vestito da donna: almeno curioso che oggi il regista Donnellan sia noto per aver allestito bellissimi Shakespeare invece con soli uomini. Pari e patta, non nel senso della cucitura dei pantaloni.

 

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