Mon oncle Vania, lo zio di Cechov è di tutti

In Teatro

Il gruppo Oyes di Stefano Cordella ci porta con accento lombardo in un testo famoso riletto con intelligenza e non tradito

Un sentimento molto diffuso ai nostri giorni (ma a quanto pare non solo) è quello di aver “perso il treno”. Ma se, come dice Zio Vanja al dottor Astrov, “La vita è uscita dai binari”, allora forse il treno siamo noi. Perché se ci si accorge di aver preso il treno sbagliato si può scendere, attraversare il sottopassaggio, e aspettare quello che va in direzione opposta. Ma un treno non può. Una volta imboccato un binario lo deve seguire fino al capolinea, quando forse è troppo tardi per tornare indietro. E non importa se uno da giovane era un frecciarossa, perché se poi cogli anni si trasforma in uno di quei tipi che fanno tutte le fermate, allora senza neanche accorgersene ecco che è diventato un regionale.

“Io e te eravamo forti!” “Ma dov’è che ci siamo persi?”. Così si chiedono Astrov e Vania, due giovani invecchiati che ricordano i loro tempi d’oro. Come se a una domanda così ci fosse risposta, e come se una risposta potesse poi fare qualche differenza. Lo spettacolo della Compagnia Oyes, diretto da Stefano Cordella con in scena Francesca Gemma, Vanessa Korn, Umberto Terruso e Fabio Zulli comincia con il suono di un respiratore artificiale che sovrasta tutto. Anche in questa casa, come in quella dello Zio Vanja cechoviano, non si ride molto, e se si ride è con un malcelato rimpianto che nasconde un’amarissima disillusione a cui ci si sforza di non cedere. Vania è un tipo vivace, dal cordiale accento lombardo, tifosissimo del Milan, che insieme a sua nipote Sonja, una ragazza che sogna di andare a Londra e mettere su una band, e a Elena, sua elegante cognata giovane solo di fatto, si prende cura di Sergio, malato in stato vegetativo eternamente “stazionario”, assistito dal dottore, antico compagno di avventure di Vania.

Sanno benissimo che il malato, come loro, del resto, non si sveglierà mai, ma tirano avanti, consumando nel frattempo i loro pallidi conflitti sentimentali, e puntano tutti su Sonja, la più giovane, dicendole di andarsene, di buttarsi, di osare. Ma chissà poi se lei vuole davvero farlo. E intanto, come cantava Luigi Tenco, “I sogni sono ancora sogni e l’avvenire è ormai quasi passato”.

Come fare un adattamento contemporaneo di un’opera di Cechov cambiando quasi tutto tranne l’unica cosa davvero fondamentale. Cechov. Qui infatti non ci troviamo di fronte a una delle tante attualizzazioni che cercano di “svecchiare” le glorie teatrali del passato con due giacche di pelle e una parolaccia. L’operazione della Compagnia Oyes è piena di senso, e la sua riscrittura, frutto di una drammaturgia collettiva, è leggera, ricca di momenti poetici, e si può permettere di giocare con i riferimenti all’attualità proprio perché ha piena consapevolezza di cosa sta portando in scena. E ci fa ridere, e ci fa spalancare gli occhi, quando per esempio Sonja dice al padre in coma “A noi giovani ci chiamano i ‘Né né’, perché non lavoriamo né studiamo, non restiamo né partiamo. Come te, papà, che non sei né vivo né morto”.

A chi assiste potrebbe venire in mente l’ultimo film di Louis Malle, Vanya sulla 42esima strada, dove un altro gruppo di attori in abiti moderni si riunisce in un teatro in disuso e, senza che lo spettatore se ne accorga, inizia a provare il testo di Cechov, impercettibilmente adattato da David Mamet, eliminando i cechovianismi di maniera e dandoci la possibilità di ascoltare la sua vera voce e di renderci conto che parla ancora a noi. E in questo modo il cinema rende un gran servizio al teatro.

E dire che il Vania in scena al Tertulliano non vuole neanche, come il suo omologo del 1896, essere Schopenhauer o Dostoevskij, ma solo giocare a pallone e vivere al mare. Eppure nemmeno questo gli è riuscito. Allora chi è Vanja? Chi è questo tipo che in tutti i tempi non riesce mai a essere pienamente sé stesso? È l’uomo del Novecento, dubbioso e tormentato, l’uomo senza qualità che ha perso tutti i suoi riferimenti? No, non solo. Forse Vanja è proprio l’uomo, l’essere umano, quello che da giovane si innamora di un fantasma e poi quando se ne rende conto è diventato un fantasma egli stesso. E che per consolarsi, come si fa con i malati terminali, si ripete che bisogna restare positivi, nonostante tutto, che non bisogna mai smettere di sperare.

Vania, allo Spazio Tertulliano fino al 27 febbraio