“La donna che osò amare sé stessa”: Valeria Palumbo e l’imperdonabile Virginia.

In Letteratura

VIrginia Oldoini venne promessa a un uomo che non voleva a 16 anni. A 17 venne fatta sposare; a 19 divenne spia in Francia per conto di Cavour. Vittorio Emanuele II la pretese. Fu amante di Napoleone III per ragion di Stato. Finì ricordata, tra false memorie di camicie da notte e pruderie di governo, come impenitente seduttrice, per di più impazzita dalla vecchiaia. Valeria Palumbo ricostruisce la sua storia eccezionale: oculata in ogni apparizione (una Lady Gaga ante litteram), non prona alla morale borghese, insofferente al matrimonio e alla maternità, ostinata a decidere di sé per sé. Troppo per il Risorgimento italiano, che ha coscienziosamente epurato dalla sua narrazione ogni contributo femminile autonomo. Una preziosa indagine sulla contessa di Castiglione pubblicata da Neri Pozza.

Esistono molti modi per cancellare una presenza ingombrante.
Il primo è ridimensionarne l’importanza; il secondo sottolinearne la poca affidabilità; il terzo raccontarla sempre all’ombra di qualcun altro; il quarto sbeffeggiarla e confinarla tra le bizzarrie, o gli errori; il quinto evidenziarne le scelte che amplificano la sua incongruenza rispetto a ciò che la norma attende; il sesto ricordarla (quando ancora non se n’è dipartita) come una parentesi di esagerazione (o di esagitazione) animando nei suoi confronti la pietà, o il ribrezzo – in ogni caso: il confino.
Fatto tutto questo, la memoria è pronta per essere lentamente soffocata, offuscata, ridotta al silenzio dentro il lacciuolo della cancellazione oculata e assertiva.

Normalmente non occorre l’esercizio completo di tutte queste energie per arrivare a spezzare le ossa alla credibilità e alla resistenza di un nome.
Con Virginia Oldoini, invece, ci si è adoperati, generazione dopo generazione, a non lesinare.

Eppure, a distanza di centovent’anni, quella vita (sebbene bistrattata da biografie tutt’altro che benevole e passata sotto la lente di un Risorgimento a monopensiero maschile) continua a irretire.
Quasi una resistenza occulta, inspiegabile, contraddittoria.
Ci si inciampa per forza, ogni volta che capiti sotto gli occhi una delle decine e decine di fotografie che la ritraggono nel suo sguardo di donna serio, serissimo, al limite della malinconia: qualcosa che ha a che fare con il nostro tempo, di stranamente familiare eppure spiazzante, un turbamento che non pacifica ma che invece accentua la scomodità della nostra percezione.

È questo che il nuovo lavoro di Valeria Palumbo, pubblicato da Neri Pozza, mette in evidenza molto bene, sforzandosi fin dal titolo di spostare l’inclinazione della luce della ragione su quello che appare come un peccato originale non rimediabile, poiché Virginia fu davvero La donna che osò amare sé stessa:

“una donna consapevole della sua intelligenza e della sua bellezza e intollerante sia del ruolo meschino che le era stato concesso che della superficialità delle relazioni in cui era coinvolta”

Che qualcosa non torni, nella spy story che la vede, giovane, bellissima e molto sposata, spedita in Francia alla corte di Napoleone III per conto del compassatissimo Cavour con l’espresso compito di coqueter (così scrive, il compassatissimo) con l’imperatore per procurare alla nascente Italia un alleato, è evidente.

Perché lei (19 anni in tutto) se ce la fa, come accade, se sopravvive alla corte, se riesce a non farsi tagliare la testa dall’imperatrice Eugenia, se viene lambita dall’accusa di terrorismo dopo un attentato ma se ne esce, se torna in Italia e si separa da un marito che non ha mai voluto in un tempo in cui per separarsi bisognava essere pronti a farsi scarnificare da una legge fatta e pensata a misura d’uomo, se fu a Plombieres ai famosi accordi, ecco: se, appunto, dopo tutto questo è ancora in piedi, ancora agita gli animi, ancora fa parlare di sé (addirittura sceglie con chi accompagnarsi, e più d’uno), è perché una determinazione eccezionale doveva muoverla.
E in questo principio autodeterminante sta la sua imperdonabilità.

“Ogni storia è plurale e nessuno di noi agisce sganciato dal suo tempo, dalle idee che lo dominano, dalle relazioni che lo circondano, dalle opportunità che il contesto offre o nega. (…) Virginia Oldoini è stata una donna del suo tempo, che ha pagato, come altre donne del suo tempo, la sua voglia di autonomia e la sua insofferenza alle regole, ma che ha anche rispecchiato la condizione sociale, le norme e le convinzioni tipiche della sua classe sociale”

Più che un ritratto a figura intera, quello che Valeria Palumbo tratteggia è una scena collettiva: un enorme sforzo per inserire la vicenda di Virginia in un tessuto connettivo di relazioni, con l’intento, preziosissimo, di restituire un contesto; più che una biografia, La donna che osò amare sé stessa è una controbiografia o, meglio ancora, una indagine sulla contessa di Castiglione, come acutamente lascia intendere il sottotitolo.

Molte sono le questioni di storia sociale che emergono: l’incognita rappresentata dal matrimonio combinato, nel quale la parte in causa – ceduta e mercanteggiata – aveva minima o nessuna voce in capitolo per preservare la propria vita, per cominciare; la poligamia; il cicisbeismo; l’ossessiva espropriazione di autonomia e libertà esercitata dalla legge nei confronti delle donne, per continuare. E, ancora, la depurazione sistematica del Risorgimento dalle figure femminili.

“Le donne hanno esercitato un reale ruolo politico pur essendo escluse da quasi tutte le cariche. Perché erano consigliere ascoltate, depositarie di segreti importanti, tessitrici di relazioni decisive”

Su questo punto il lavoro di Valeria Palumbo è una instancabile fonte di restituzioni, a pennellate rapide e precise, di nomi, di vite, di sacrifici, di donne straordinarie che si sono ostinate a esistere non riducibilmente – benché ridotte, postume, nella memoria determinata da biografie immancabilmente estese da mano maschile (persino nelle lapidi, che le vogliono sempre e solo mogli e madri esemplari).

Da Giuditta Bellerio Sidoli a Maria Walewska, da Maria Gaetana Agnesi a Eugenia Attendolo Bolognini, da Rose Bonheur a Giulia Samoyloff, da Clara Maffei a Adelaide Ristori, da Teresa Casati a Julie Bonaparte, da Cristina di Belgioioso a Maria Antonietta Torriani: se state leggendo questi nomi e non vi viene in mente nulla, ecco, non è un caso.
Come non è un caso che, al contrario, Cavour, Mazzini, Garibaldi, Manin, Pellico, Maroncelli, Menotti suggeriscano sempre qualcosa (e, se non la memoria storica, di sicuro una lapide o una statua; o il nome di una scuola, o, almeno, di una via): alla faccia della cultura della cancellazione.

Di quello che fu il non tramandato ruolo politico delle donne anche nel processo di unificazione del Regno d’Italia rende ben conto il libro di Valeria Palumbo:

“La fine delle dinastie assolute e l’ascesa di quelle parlamentari e degli Stati nazionali ridusse inizialmente ancor di più lo spazio politico delle donne. Non lo annullò, ma via via che il potere decisionale si andò spostando dalle corti ai parlamenti, non solo si contrassero gli spazi di azione, ma fu negata, a chi non aveva un ruolo ufficiale (e le donne quasi mai lo avevano) o un diritto legale (per esempio quello di voto), la possibilità di esprimere una posizione e lavorare perché un’idea o un progetto politico si realizzassero. (…) Nel frattempo, proprio con la creazione degli Stati nazionali e il rafforzamento degli imperi, si formò una classe “professionale” di diplomatici che , in generale, aveva solo due caratteristiche per rivendicare il ruolo: era costituita da uomini con, in più, un titolo nobiliare”.

In questo frangente, la disinvolta diplomazia parallela di Cavour non si fa problemi a usare uomini e donne.
Virginia Oldoini è la più ammirata, concupita, imitata, odiata, temuta; tra tutte le pericolanti la meno riducibile ma, a un certo punto, anche la più determinante per le sorti di un paese. E oltretutto consapevole.
Proprio per questo – e qui sta una delle parti più interessanti di questo lavoro – sbeffeggiarla, pubblicamente e sprezzantemente, non solo non è considerato di cattivo gusto, ma, anzi, di grande umorismo: come deve essere stato sentirsi definire “La vulva d’oro del nostro Risorgimento” non da un carrettiere ma, tra i lazzi degli astanti, dal primo ministro Urbano Rattazzi?
Primo ministro, vale la pena di ricordarlo, di quel Regno che aveva spedito una diciannovenne in pasto a un uomo di trent’anni più vecchio, gottoso, pieno di reumatismi, azzoppato e con problemi alla vescica – benché imperiale.

“A differenza di tutti gli uomini che, a qualche titolo, avevano servito la causa di Cavour e di Vittorio Emanuele, per lei non c’erano stati compensi in titoli e onori”

scrive Valeria Palumbo. Anzi. La patente di folle è già pronta.

“La libertà della contessa di Castiglione, la sua insofferenza alle regole, la sua perenne insoddisfazione, la sua aspirazione a compiere grandi imprese, la sua incapacità a limitarsi al ruolo della bella che seduce quasi involontariamente qualsiasi uomo le capiti a tiro e la sua insofferenza a piegarsi alla volontà dei seduttori (chiunque essi siano), hanno indotto a formulare diagnosi di nevrosi. addirittura, di psicosi. Vero: alla fine Virginia somatizzò e acutizzò il suo disagio esistenziale. Ma mi chiedo perché nessuno ne abbia colto l’origine nella rabbia suscitata dall’impossibilità di agire liberamente (…). Il punto è che proprio la non-passività è stata considerata, nelle donne, un segno inequivocabile di pazzia”.

Come fu che una donna che per una vita intera esercitò ed esibì il controllo della propria immagine pubblica, e che si fece fotografare anche a sessant’anni suonati, finì dentro la narrazione della vampira che si aggira di notte per i cimiteri coperta di veli neri è l’effetto di una ben orchestrata dissonanza cognitiva.

Troppo difficile, troppo complesso comprendere il senso profondo di quello che Virginia scriveva di sé in una missiva al padre :

“Voglio poter andare nel mondo o no senza avervi la tremarella continua”.

E, ancora:

“Vi sono caratteri siffatti che paiono acqua quando l’acqua non corre, ma quando la corrente è in corso, non si fermano più né per cristi né per santi, et il n’y a pas de loi qui tienne!”

Oggi, scrive Valeria Palumbo, non esiste un archivio unitario delle memorie di un personaggio tanto eccezionale: lettere, tracce, ritratti, foto, sono sparsi, e chi decida di rincorrerne il filo è costretto a muoversi in lungo e in largo; ma forse, tra le poche rivincite che le sono state concesse in vita, alla contessa di Castiglione questa, in morte, forse non sarebbe dispiaciuta: essere ovunque, e in nessun luogo.

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