Un mago, un uomo/pollo e le peripezie di tante anime in pena

In Cinema

Esce finalmente dopo due anni “Il capofamiglia”, film d’esordio dell’egiziano Omar El Zohairy, premiato ai Festival di Cannes e di Torino. Un apologo feroce, ambientato in una terra di nessuno accanto a una fabbrica, probabilmente al Cairo, in cui commedia dell’assurdo e dramma sociale si legano nel descrivere un’umanità povera e disperata, dominata dal dio denaro. Dove una signora silenziosa e mite, vittima di un evento folle, si trova sulle spalle il marito e tre figli da mantenere

È una favola nerissima, Il capofamiglia dell’egiziano Omar El Zohairy, finalmente in arrivo nelle sale dopo due anni di attesa, e dopo aver vinto la Semaine de la Critique a Cannes e il Gran Premio della giuria a Torino. Un film potente e sgradevole, astratto e concretissimo nel suo raccontare le assurde peripezie di un gruppo di anime in pena, condannate a vivere l’inferno sulla terra.

La protagonista è una donna silenziosa e mite, abituata a ubbidire a un marito prepotente e ottuso, e a fare i salti mortali per sfamare tre figli e tenere in ordine una casa che cade a pezzi all’interno di un palazzo fatiscente. La mesta routine quotidiana è interrotta dalla festa di compleanno per il bambino più grande, alla quale vengono invitati parenti e vicini di casa, e un mago. Un ciarlatano che incredibilmente trasforma il capofamiglia in un pollo. Una trasformazione irreversibile che sprofonderà nell’incubo la già grama vita della protagonista, costretta ad affrontare da sola un mondo saldamente (e violentemente) in mano ai maschi, trovandosi un lavoro fuori casa per garantire la sopravvivenza della famiglia ma al tempo stesso continuando a occuparsi con abnegazione dell’inutile (e assai molesto) marito pennuto.

Siamo alla periferia del Cairo, probabilmente, ma la scelta del regista esordiente Omar El Zohairy è quella di evitare qualunque definizione geografica o urbanistica precisa. Anche i personaggi non hanno nome e si dibattono guidati da un puro e semplice istinto di sopravvivenza, legati da rapporti sempre piuttosto vaghi che finiscono con l’essere definiti soltanto dallo scambio di denaro. Quelle banconote sudicie, sbrindellate, logorate dall’uso, che passano in continuazione di mano in mano, e ogni volta vengono contate e ricontate, incassate con avidità e prontamente spese, in una commedia dell’assurdo che sprofonda molto presto nel dramma sociale. Perché i più miserabili quelle banconote unte e bisunte le offrono cavandosi letteralmente il sangue, con la rassegnazione di chi sa che non riuscirà mai a pagare tutti i debiti e ad affrancarsi anche solo in parte dal bisogno.

Un apologo feroce ambientato in una sorta di terra di nessuno ai margini del mondo, nelle immediate vicinanze di una grande fabbrica che produce non si sa bene che cosa, ma sicuramente genera un inquinamento spaventoso in tutta l’area circostante. Un film dominato da una sensazione di orribile oppressione, esaltata dalla scelta di tenere spesso la macchina da presa a ridosso dei personaggi, come a voler togliere loro anche quel poco di aria che ancora hanno a disposizione. Un ritratto dell’Egitto di oggi dove non c’è molto posto per la speranza. La tetra constatazione di un panorama desolante, fra burocrazia inetta e patriarcato tossico, disperazione e autolesionismo, lascia il posto solo nel finale a un’ipotesi di via d’uscita, che però ha il sapore dell’apocalisse.

Il capofamiglia di Omar El Zohairy, con Demyana Nassar, Samy Bassouny, Fady Mina Fawzy, Mohamed Abd El Hady

                                                                                                                                                                                       

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