Alcuni muri da quel lontano ’79 sono caduti, altri sono stati eretti. Ripercorriamo la storia di quel mitico album e delle emozioni che ne hanno accompagnato il lungo successo
Finalmente un anniversario che merita di essere citato: quaranta anni di The Wall dei Pink Floyd, che uscì ufficialmente il 30 novembre 1979. Merita perché oggi the Wall è un disco attualissimo, sia per i suoni che per il racconto, immaginato da Roger Waters e poi perfezionato dalla band.
Intanto, non è un disco che puoi ascoltare a volume basso. Io ho tirato fuori la mia cara vecchia copia in vinile e subito, dalle prima note di In the flesh?, ho tirato su il volume, alla faccia della domenica mattina e dei vicini. The Wall entra nella vita di chi ascolta come quasi tutta l’opera omnia dei Pink Floyd, ma a differenza della magia di Dark side of the moon o della malinconia eterna di Wish you were here, con questo doppio LP Waters e compagni ti dicono “svegliati, la vita che stai vivendo è l’unica che hai e se non reagisci al muro che ti sei/ti hanno costruito dentro e intorno, non ne uscirai”.
E’ un disco decisamente “politico”, e che nel 2019 proprio perché politico resta assolutamente attuale: il muro è diventato un simbolo di chi vuole dividere la gente nel nome della paura e dell’odio, tutti sentimenti presenti nella narrazione dei testi scritti da Roger Waters.
L’idea dell’album nasce in realtà da… un esaurimento nervoso proprio di Waters, che in un concerto in Canada nel 1977 sputa addosso alla prima fila del pubblico che sta seguendo il live della band in maniera poco concentrata e rumorosa. Waters si spaventa della sua reazione, ne parla con uno psichiatra e decide due cose: mettersi in cura e far diventare quella cura e quello spavento il punto di partenza dell’album successivo dei Pink Floyd.
Il disco è ancora oggi magnifico, pieno di intuizioni sonore e di emotività, ambiguità, paura e disequilibrio, un racconto unico senza pause (una vera e propria opera) che sceglie espressamente di dare voce al disordine emotivo del protagonista, chiamato per l’occasione Pink. La storia scritta da Waters in realtà è quasi autobiografica: è lui che resta orfano da piccolo per colpa della guerra (suo padre morì con l’esercito inglese ad Anzio nel 1944), è lui che soffre terribilmente per la disciplina e la cattiveria della scuola, condizioni che daranno vita ad Another brick in the Wall part 2.
È lui che viene drogato per salire su un palco, e da quella storia nasce il capolavoro assoluto del disco, Confortably Numb con l’assolo semplicemente divino di David Gilmour alla chitarra.
Non fu un disco registrato in relax dalla band, anzi: per dare un idea del clima, Waters licenziò Richard Wright – tastierista e membro fondatore – perché arrivò tardi in studio (era andato a vivere in Grecia). Non solo, proprio su Confortably Numb Gilmour e Waters arrivarono a litigare pesantemente, tanto da lavorare a due versioni diverse della canzone in due studi separati, con i musicisti che facevano la spola. Evidentemente la tensione vissuta nelle registrazioni divenne elemento di ulteriore energia creativa, dato che dalle due versioni è poi emerso quel capolavoro che conosciamo.
Il successo del disco è ovviamente anche figlio della tournée mondiale del 1980, in cui i i Pink Floyd concepirono l’incredibile e celebre scenografia: quel muro che copriva completamente la visuale al pubblico e che veniva abbattuto sul finale, liberando con quella trovata scenica l’angoscia che l’intera opera comunica.
Quel tour all’epoca non passò dall’Italia, ancora off-limits dopo gli incidenti ai concerti degli anni Settanta. Chi poteva, andava in Svizzera, Francia o Germania a vedere “live” quella meraviglia, noi comuni mortali ci dovemmo “accontentare” della pellicola Pink Floyd: the Wall, uscito tre anni dopo. Ma non era il resoconto del concerto, troppo semplice: fu un vero e proprio film, diretto da Alan Parker e che vide come protagonista Bob Geldof, passato poi agli onori delle cronache come “Mister Live Aid”. La musica è parzialmente rinnovata, e anche la storia è un po’ diversa, con il protagonista che diventa capo di una milizia paranazista. Nonostante Alan Parker alla regia (autore di capolavori come The Commitments e Mississippi burning n.d.r.), il film non è all’altezza del disco, ma chiuse in maniera degna il progetto partito tre anni prima.
Poi The Wall è diventato un simbolo, una metafora popolare ed efficace per raccontare la realtà: nel 1989 diventa la rappresentazione della speranza con la caduta del muro di Berlino ( e Waters, già separato dalla band, farà un live speciale proprio su “quel” muro) e poi negli ultimi anni riprende il suo significato originale.
Il muro come isolamento dalla realtà (il nostro chiuderci nella solitudine dei social), il muro come simbolo della impossibilità di cambiare le cose, il muro come plastico e realissimo esempio di divisione fra mondi. Roger Waters lo ha portato in giro per il mondo in uno spettacolo live incredibile, rifiutandosi di suonare in posti dove i muri li costruiscono (Israele) o polemizzando ferocemente con chi li vuole costruire, come Trump negli Stati Uniti.
Dopo quarant’anni, ancora muri, sempre più alti. Di recente sono stato a Betlemme, Israele e Palestina. Dopo aver visto una parte degli 800 km di muro costruiti per separare due popoli, il nostro gruppo ed io siamo risaliti sul bus: da un telefono, uno di noi ha fatto partire Another brick in the Wall.
L’abbiamo cantata tutti, ancora.