Tanti Matthew Shepard, tante Laramie. L’attualità del Seme della violenza

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La compagnia dell’Elfo porta in scena lo spettacolo – dalle forti tinte di documentario – dedicato al giovane omosessuale ucciso nel Wyoming nel 1998, e ci dimostra quanto quella storia parli di noi, oggi

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Tanti Matthew Shepard, tante Laramie. L’attualità del Seme della violenza

La compagnia dell’Elfo porta in scena  lo spettacolo – dalle forti tinte di documentario – dedicato al giovane omosessuale ucciso nel Wyoming nel 1998, e ci dimostra quanto quella storia parli di noi, oggi.

Matthew Shepard stava per compiere ventidue anni, ma ne dimostrava molti meno. Era quasi il viso di un bambino quello che improvvisamente riempie le televisioni di mezza America in un giorno qualsiasi. Efebico, biondo, il viso perfetto per raccontare una storia di quelle che affascinano gli spettatori. Quella versione, certo, quella rimasta storica nelle foto e nei video. Il Matthew di prima. 

Prima che due coetanei lo rapissero, lo brutalizzassero per ore e poi lo lasciassero lì, legato a una staccionata, a morire. Al freddo, prima. E poi in ospedale, in un disperato tentativo di salvarlo, mentre l’America e poi il mondo si stringono intorno a questo ragazzo pestato solo perché è omosessuale. 

Questa è la storia che è stata raccontata, che ha reso Matthew Shepard un simbolo, sia in patria (dove la legge che porta il suo nome, promulgata da Obama nel 2009, è quella che estende l’aggravante per i crimini d’odio alle violenze motivate da omolesbobitransfobia, quello che cerca di fare il DDL  Zan in questi giorni)  e fuori. 

Anche da noi Matthew Shepard è diventato un simbolo, e sono molte le associazioni e i circoli che portano il suo nome. Questa, si diceva, è la storia che è stata raccontata. Ed è la storia vera, intendiamoci. La stessa da cui parte Il seme della violenza – The Laramie project, in scena al teatro dell’Elfo fino al 2 luglio. Ma vale la pena soffermarsi sulla facilità di empatizzazione con la sua figura non già per discuterla, ma per restituire il senso, oggi, di riportare in scena, nel mese del Pride, a Milano, un caso di cronaca che ha avuto luogo nell’ottobre 1998 a Laramie, centro rurale del Wyoming, dove lo “schietto” Matthew si rendeva conto di essere “un gay in un paese di cowboy”. E il contesto è fondamentale. 

Lo sapevano gli attori del Tectonic Theater Project, guidati da Moises Kaufman (autore di Atti Osceni e di un altro caposaldo dell’Elfo e del teatro a tematica e non solo, quell’Angels in America che fa capolino anche in questo spettacolo e che ancora pochi mesi prima della pandemia aveva riempito la platea di Corso Buenos Aires). Lo sapevano, si diceva, quando a breve distanza dalla morte di Shepard sono andati proprio a Laramie, a parlare con quanti più possibili dei suoi ventimila abitanti e poco più, a sentirsi raccontare cosa è successo, davvero, in quei giorni. E a sentirsi rispondere parole che conosciamo bene, anche nell’Italia di quasi un quarto di secolo dopo, anche in città: una infinita lista di variazioni sul tema del “io non ho niente contro di loro, purchè non diano fastidio”. Perché è vero che “sarebbe stato diverso se più persone gay fossero rimaste a vivere in provincia”, ma non è tutto qui.
Ed è per questo che – come già facevano il documentario prima e lo spettacolo poi – anche la messa in scena della compagnia dell’Elfo, e la regia a togliere di Ferdinando Bruni (anche in scena) e Francesco Frongia scelgono una restituzione quasi puramente documentale, la mimesi pressochè esatta di quello che davvero è accaduto in quei giorni ai confini col Colorado. Decidono, prima di tutto, di incarnare le voci di chi a Laramie ci vive.

Una polifonia che prende la forma dell’orazione civile, senza paura di concedersi anche qualche punta di retorica: come, appunto, il viso “giusto” e vivo di Shepard, o le voci che ci ricordano che “il seme della violenza” non sta nelle botte, sta molto prima. Sta nelle parole. E, prima ancora, nel bisogno spasmodico che spesso abbiamo di tenercela lontano.  Ma questo è noto, ed è qui l’urgenza, l’attualità e l’urgenza di un lavoro come questo – solo per chi queste cose le conosce già. 

Non a caso la compagnia dell’Elfo si avvale in scena di otto talenti ormai riconosciuti, ma anche persone a cui il tema dell’attivismo non è (ciascuno a suo modo e coi propri percorsi) estraneo. Margherita Di Rauso, Giuseppe Lanino, Umberto Petranca, Marta Pizzigallo, Luciano Scarpa, Marcela Serli, Francesca Turrini sono precisi, espressivi e sì, anche divertenti – per quanto ci si possa consentire, ed è un interrogativo che senz’altro lo spettatore si pone, di ridere della tragedia – nel dare corpo agli abitanti di Laramie nella palestra della scuola, luogo per antonomasia del dibattito che forma e orienta i pensieri di ogni paese e di ogni provincia. 

Ma ciò che colpisce davvero è che tra queste persone niente è davvero solamente quello che ci piacerebbe che fosse. Ci piacerebbe derubricare ancora atti come questi ai rimasugli stantii di una provincia che odora di animali e di passato. Ci piacerebbe che fossero distanti da noi. Ci piacerebbe, come piacerebbe a Laramie, poter dire “hate is not a Laramie value”: come del resto ha fatto chi, all’indomani della morte di Shepard è sceso in strada e ha smesso di nascondersi, per dire che no, quelle cose non gli somigliano. Eppure, le Laramie di ogni latitudine, che dopo ogni pugno, ogni aggressione, ogni rifiuto, hanno fretta di ricordare “che noi non siamo quel tipo di città” hanno ancora bisogno di ricordare che gli assassini di Shepard sono due di loro. Due figli di famiglia. Due ragazzi normali. 

Ecco così che l’intero spettacolo è recitato a pubblico, nella palestra ci siamo anche noi. Ci sono i tanti che arrivano in scena avendo l’età e la storia di Matthew, i tanti Matthew che conosciamo, che siamo tutti, che sanno cosa ha significato essere gay e non volerlo nascondere nella provincia profonda degli anni novanta, o magari essere costretti a farlo. Ma ci sono anche, e forse soprattutto, i tanti che forse entrano anche a teatro per rassicurarsi che “noi non li cresciamo, ragazzi così: a cui davanti a questa storia, anche oggi, alle 18 ore del corpo di Matt abbandonato al gelo e poi ai suoi giorni di agonia, può servire sentirsi ripetere che “invece sì. Noi li cresciamo, ragazzi così”.

Persone che forse non lo sanno perché. La religione? La noia? Le convenzioni sociali? Tutto o forse niente di tutto questo. Che non è finito, non è acquisito e non è scontato. Lo dimostrano le cronache quotidiane, lo dimostra l’eco di conosciuto che resta sotto ogni frase pronunciata in scena e del momento in cui ti rendi conto che forse l’hai detta anche tu. Resta il bisogno, ancora, di scandire la parola speranza. E allora forse, anche lo straordinario atto di umanità di una famiglia che sceglie di non chiedere la pena di morte per chi ha assassinato il proprio figlio si trasforma nell’obbligo di continuare, finché si respira, a ringraziare per la vita colui che l’ha persa. E continuare a pensare  a cosa abbiamo fatto, a cosa possiamo fare, non fare ripetere il futuro. Così diventa vero e non soltanto efficace che – di qualsiasi contesto o minoranza si faccia parte, allora come oggi, “Nessuno ha fatto quanto Matthew Shepard per questa comunità”

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