Sul “verde” confine della morte, dove naufraga la civiltà d’Europa

In Cinema

La grande regista polacca Agnieszka Holland mostra in “The Green Border”, premiato all’ultima Mostra di Venezia, il crudele destino dei profughi africani e mediorientali che arrivano alla frontiera tra Polonia e Bielorussia. Privati di ogni diritto, rischiano la vita, rimpallati dalle guardie dei due stati, egualmente spietate, da da vivi o da morti, al di là del filo spinato. Bambini, donne, anziani sono trattati come criminali o nemici. Un film dal ritmo serrato, di taglio quasi documentario, un diario fatto di primi piani e camera a mano. Che pone tante domande su cosa è diventata la nostra umanità

“Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i Paesi occidentali hanno compreso che il diritto di asilo doveva essere un diritto umano fondamentale per integrare società moralmente distrutte e rispondere alle sfide della disuguaglianza. Negli ultimi anni, il rispetto di questo diritto si è gradualmente eroso, fino a essere completamente ignorato dall’Unione Europea, che si è trasformata in una sorta di fortezza. Mentre i suoi nemici usano la miseria dei rifugiati in fuga dai conflitti come una sorta di arma ibrida. Il “vaccino dell’Olocausto” ha smesso di funzionare, l’uovo del serpente è ormai maturo”.

Con queste parole la grande regista polacca Agnieszka Holland, oggi 76enne e con all’attivo una ventina di film (come Europa Europa o In Darkness), spesso applauditi ai festival maggiori, da Venezia a Berlino, tratteggia la cornice del suo ultimo The Green Border, premio speciale della giuria all’ultima Mostra in laguna. Siamo sulla linea di divisione, fatta di filo spinato e feroci guardie armate, tra Polonia e Bielorussia (nell’autunno del 2021), in quelle foreste paludose, ribattezzate “confine verde” oggi diventate vere trappole per i migranti che hanno scelto la via terrestre per raggiungere i paesi della UE. Rimpallati lungo la demarcazione nazionale, da vivi e perfino da morti, dai soldati del dittatore Lukašėnko e dall’esercito di Varsavia, fuggono per lo più dal Medio Oriente e dall’Africa, attirati da una propaganda che promette un facile e sicuro passaggio. Con l’idea di usarli cinicamente come “armi umane” contro l’odiato vicino.

Le autorità, da entrambi i lati, li dipingono nella loro propaganda come una minaccia, li chiamano degenerati, terroristi, pedofili. Li sottopongono a torture, sevizie e stupri (ci sono tra loro molte donne, anziani, bambini), e spesso finiscono abbandonati nella terra di nessuno morendo di fame o annegati. E queste “zone della morte” sono precluse ai giornalisti e ai volontari decisi a portare aiuti: cure, cibo, conforto. Nel quasi totale disinteresse degli Stati e dell’Unione Europea, ricevono conforto solo da singoli abitanti di quei luoghi, impegnati a fronteggiare una catastrofe umanitaria “a meno di tre ore da Varsavia”, dice ancora Holland sconvolta dalla sorte di queste persone. “Nella loro condizione ho visto qualcosa di tragicamente simbolico e, forse, il preludio a un dramma che potrebbe portare al collasso morale (e anche politico) del nostro mondo”.

Anche perché ben diverso è stato ed è l’atteggiamento di istituzioni e soldati quando pochi mesi dopo i fatti raccontati nella parte principale del film, allo scoppio della crisi Ucraina, centinaia di migliaia di profughi in fuga da quel martoriato paese vengono accolti, e giustamente, con grandi manifestazioni di solidarietà e supporto, da quelle stesse guardie di frontiera che fino a pochi mesi fa ben diversamente si erano comportati con esseri umani, anche piccoli, in arrivo da altri continenti, altre culture, altre storie. E tutto questo, con una punta di malcelata vis polemica, conclude il film.

Nel film si raccontano in particolare la vite di Julia, psicologa che si fa attivista di una formazione umanitaria accanto a due già esperte militanti, rinunciando a una ben più confortevole esistenza, di Jan, giovane guardia di frontiera prossimo a diventare padre che con amore sogna il futuro figlio (suo) e intanto crudelmente sconvolge le vite di quelli degli altri, e il disperato peregrinare di una intera famiglia siriana privata di tutto nella serie infinita di battaglie che hanno distrutto il bellissimo paese da cui vengono. Vittime che non sono certo presentate con i toni dell’eroismo o di un’eccessivo pathos, al contrario con la secchezza straziante del bianco e nero, che non esclude la pietà ma si muove in un quadro quasi documentaristico

Una cronaca, un diario fatto di primi piani e camera a mano (guidata con perizia da Tomasz Naumiuk) che tallona da vicino i protagonisti, attenta alla veridicità dei particolari. Mentre molto merito della riuscita, oltre all’ottima prova collettiva degli interpreti, polacchi e no, va anche alla sceneggiatura opera dall’autrice, di Maciej Pisuk e di Gabriela Łazarkiewicz-Sieczko. Perchè il fine di The Green Border, più che commuovere è documentare: il cinema dice e dimostra Holland, può far vedere da diversi punti di vista la verità sul mondo e il destino dell’uomo. Può porre domande a cui non sappiamo rispondere, forse, ma che ci permettono, ponendole, di dare un senso al nostro essere. 

The green border di Agnieszka Holland con Behi Djanati Atai, Agata Kulesza, Maja Ostaszewska, Tomasz Wlosok, Jalal Altawil, Al Rashi Mohamad, Monica Frajczik, Dalia Naous, Jasmina Polak

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