Sogni e paure umane alla scoperta della virtù del perdono. L’ultimo Miyazaki

In Cinema

Non è forse uno dei suoi capolavori “Il ragazzo e l’airone”, il più recente lavoro dell’82enne maestro dell’animazione giapponese. Tuttavia si resta ammirati e felici davanti al carosello di ombre e luci, all’ennesimo, magnifico tentativo di raccontare la nostra fragilità con immagini in apparenza semplici, ma capaci di svelare strati e strati di profondità. Grazie all’uso d’ogni colore dell’arcobaleno, di tutte le possibili sfumature di nero, grigio e bianco, tra le nebbie della memoria e il cuore caldo della fantasia

A Tokyo, durante la Seconda guerra mondiale, Mahito – il protagonista di Il ragazzo e l’airone, il nuovo film di Hayao Miyazaki – vede sua madre morire tra le fiamme di un ospedale colpito dai bombardieri americani. Due anni dopo, insieme al padre lascia la città per una grande casa in campagna: ad attenderlo una nuova madre (la zia, da cui suo padre ora aspetta un altro figlio), un mondo totalmente sconosciuto, una serie di riti di passaggio che lo condurranno alla scoperta della virtù del perdono e della struggente bellezza delle cose nascoste. In questa sorta di odissea all’insegna del dolore, della magia e del mistero, Mahito avrà come guida un airone cenerino: una sorta di garrulo e ostinato Virgilio, a volte insopportabile, a tratti commovente, spesso capace di irritare il giovane protagonista, altrettanto di frequente capace di spiazzare lo spettatore.

Proprio il rapporto con questo uccello parlante, e con una natura affascinante ma non sempre benigna (non a caso, alla sua prima apparizione l’airone si palesa come un animale mostruoso, dai tratti profondamente inquietanti), permetterà a Mahito di attraversare la palude del dolore e del lutto, imparando infine che passato e futuro devono trovare un punto di equilibrio nel nostro presente, ogni giorno, tra vita e morte, rimpianto e speranza.

Miyazaki è un grande e tale resta in questo film, anche se certo è difficile sostenere che Il ragazzo e l’airone sia all’altezza di certi suoi capolavori del passato. Tuttavia, si resta ammirati e felici davanti a questo carosello di ombre e di luci, a questo ennesimo magnifico tentativo di raccontare la nostra umana fragilità attraverso immagini semplicissime, in apparenza, eppure capaci di svelare strati e strati di profondità, usando tutti i colori dell’arcobaleno e tutte le possibili sfumature del nero, del grigio e del bianco, tra le nebbie spettrali della memoria e il cuore caldo e pulsante della fantasia.

Un inno all’immaginazione, puro e strabiliante, capace di incantare gli occhi e staccare l’anima da terra. Un fragile, commovente riassunto delle nostre paure e dei nostri sogni, di tutti gli spaventi e i desideri che Miyazaki ha saputo raccontarci in tutti questi anni, fin dalle prime inesplicabili magie di Nausicaä, Laputa e Totoro. Un seducente condensato di riflessioni filosofiche pesanti come pietre e oniriche, leggere e coloratissime divagazioni che si aprono e si chiudono come ventagli magici mostrando altri universi, nuovi mondi, meravigliose utopie.

Con ogni probabilità questo è l’ultimo film di Miyazaki; ma non è un testamento, sembra piuttosto un (impossibile) passaggio del testimone, un tentativo rigoroso e struggente di trasmettere un’eredità che forse semplicemente è impossibile da trasmettere. Ed è proprio quello che l’autore ci mostra nella figura del vecchio antenato di Mahito, prigioniero del suo universo parallelo, incapace di uscirne e al tempo stesso non più in grado di tenerlo in piedi. Sembra una confessione di impotenza, e forse lo è, per il fondatore dello studio Ghibli, ormai 82enne. Ma a noi piace pensare che in questo paese delle meraviglie ci sia ancora spazio per nuovi sogni e stupori, infinite e vertiginose magie.

Il ragazzo e l’airone di Hayao Miyazaki

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