Corpo a corpo con la maternità. L’esordio di Silvia Ranfagni

In Letteratura

Quando Beatrice decide di diventare madre, tutto cambia: il corpo, il tempo, la forza, i pensieri. Silvia Ranfagni racconta la maternità: impietosa, spavalda, spaventata nella storia di una donna in precario equilibrio affettivo.

Si sa già tutto di una madre. Anzi, cosa mai ci sarà da sapere?

Silvia Ranfagni, docente di sceneggiatura e scrittura creativa e autrice di Corpo a Corpo, (edito per Edizioni e/o), dimostra che è tutto il contrario.

Sabato 16 marzo l’autrice ne parlerà a Bookpride insieme a Maura Chiulli e Francesca Scotti (l’appuntamento è alle 12 in sala Doris Lessing alla Fabbrica del Vapore).

Con il suo romanzo d’esordio, Silvia Ranfagni ci offre un’affascinante riflessione sulla maternità, sulla condizione femminile e sulle fragilità dell’essere umano. Senza timori o censure, il lettore viene condotto attraverso un viaggio che svela gli aspetti inediti del gravoso compito di essere madre, la cui complessità viene spesso ignorata. L’autrice si insinua negli angoli più bui della maternità. Riflessioni solitarie e personaggi di memorabile profondità, fanno sì, tuttavia, che la narrazione si ampli a questioni che interessano la condizione umana stessa.

Della maternità, Beatrice, la quarantenne protagonista di Corpo a Corpo, racconta, prima di tutto, la stanchezza, la fatica, le bugie incessanti, la riscoperta del proprio aspetto sotto una veste nuova e deformante, l’impossibilità di dedicarsi alla cura della propria mente e del proprio corpo, fino al senso di inadeguatezza provato nei confronti del proprio ruolo di donna e di madre. La protagonista ospita dentro sé una lotta intestina, combattuta fra una naturale spinta a soddisfare le necessità del figlio e il bisogno, altrettanto incontenibile, di fuggire lontano. Con precisione di dettagli, l’autrice descrive gli ostacoli con cui una madre deve confrontarsi, senza lasciare niente da parte.

Una scrittura curata, ricca e mai abbonata al caso, accompagna il lettore in un romanzo che infrange, senza pietà, i poetici luoghi comuni legati alla maternità. In un equilibrio studiato, i picchi di drammaticità sono bilanciati da un’ironia incisiva e pungente. I dialoghi, vivaci e accattivanti, riportano l’attenzione al ruolo che la sceneggiatura riveste nell’esperienza biografica dell’autrice.

Fin dal titolo, la dimensione corporea è protagonista assoluta. Scelta come chiave di interpretazione del rapporto madre-figlio, la corporeità irrompe con urgenza nella narrazione. Da una parte, considerazioni marginali legate alle fatiche quotidiane dell’esser madre, come l’assistere al cambiamento del proprio corpo e l’allattamento al seno con tutte le sue privazioni; dall’altra, fondamentali, i tratti somatici, che, tramandati di generazione in generazione, regalano l’illusione di un legame eterno.

Il romanzo si apre con una donna che, alla disperata ricerca di amore totalizzante e incondizionato, decide di mettere al mondo un figlio, convogliando in tale scelta tutte le sue speranze. Quel piccolo corpo sarà fonte unica di gioia e appagamento, immagina con ingenuità.

Beatrice è una donna sola, colta e intelligente.

Segnata, per carattere, da un’indolenza che la piega di fronte ad ogni difficoltà e da un saccente senso di superiorità che tenta con fatica di nascondere, Beatrice può vantare diversi successi: una laurea, un’esperienza in una onlus in Cambogia e, infine, un lavoro come Content manager. Cosa altro si può desiderare? Un figlio.
Dal momento che non ha un compagno con cui dividere questa gioia, Beatrice decide per la fecondazione assistita. Seppur velatamente tragiche, le pagine dedicate all’esperienza di Beatrice alla “banca del seme” sono fra le più esilaranti del romanzo. Un’insormontabile incapacità a stabilire un contatto affettivo sincero e spontaneo, il bisogno di qualcuno su cui esercitare il pieno controllo e un senso di solitudine mai colmato, sono fra le ragioni che spingono Beatrice verso la maternità.

Tuttavia, nel corso della narrazione, si assiste a un progressivo ribaltamento dei rapporti di forza. Nonostante le apparenze, è il figlio a possedere il genitore, a inghiottirne, a poco a poco, le libertà e le abitudini. Dare e avere costituiscono un binomio fondamentale nella narrazione. Dietro un gesto di grande potenza, come quello del dare la vita, si nasconde un’implicita e inevitabile subordinazione.

La relazione umana più intima e affascinante dell’intero romanzo, se non l’unica, è quella fra Beatrice e Elsa, la tata di colore che assume per alleviarle i più meschini sforzi che richiede la maternità.

Tutte le problematiche di cui Beatrice si sente caricata nel proprio ruolo di madre, per Elsa non esistono. Di fronte alla fatica, Beatrice prova un crescente timore di insuccesso unito a un incessante senso di colpa nei confronti di Arturo, su cui teme di proiettare le proprie mancanze. Le criticità nascono dall’incapacità di Beatrice a vivere con naturalezza il rapporto affettivo con ciò che la circonda. Gli stessi muri che ha eretto nel tempo, come difesa, le impediscono ora un rapporto autentico con la nuova vita che ha generato.

Elsa, d’altra parte, è diversa da Beatrice, e lo è in modo assoluto: rappresenta un opposto ideale di donna e di madre.  È felice e autorevole, è bella e ha fede. Ha denti bianchi, zigomi alti e gambe lunghe. Elsa è madre. Per lei il mondo non è un mistero inconoscibile, ma è semplicemente lì, proprio davanti a lei. Elsa è sicura di sé e delle certezze in cui crede in modo incondizionato e, forse, un po’ ottuso. Possiede quella spinta al sacrificio e quella capacità di abnegazione di cui Beatrice è interamente carente. La sua cultura è buona, ma non ottima. La semplicità delle cose in cui crede le dona una forza interiore naturale e inarrestabile, che la rende concreta e accessibile. Tutto l’opposto di Beatrice, divisa fra la psicanalisi e gli amari agi della sua condizione di donna sola e benestante.

Occidentale viziata, la maternità è la tua prima vera rinuncia, con queste parole Beatrice immagina che Elsa la descriva.

Di fatto, un altro affascinante capitolo del romanzo è dedicato proprio al ruolo che la psicanalisi svolge nella vita di Beatrice. Come proprio del romanzo, la riflessione, incentrata sulla protagonista, si apre all’universale e, da un personale disagio di Beatrice, si trasforma in un accurato studio sulla psicanalisi e sulle sue pretese di successo, apparentemente ingiustificate. La mancanza di alcune componenti chimiche del cervello sembra essere la causa del comportamento “malato” di Beatrice. Constatazioni sterili, unite a qualche pillola, sono la formula magica, ripetuta di settimana in settimana, dallo psicanalista, chiamato da Beatrice, con ironia, Cento-euro.

Elsa, al contrario, ha conosciuto i veri drammi della vita, ha passato tragedie indicibili, sebbene non perda occasione di parlarne. Tutto questo l’ha resa invincibile. Non sente la fatica ed è spesso di buon umore. Beatrice ha paura di Elsa e allo stesso tempo ne è irrefrenabilmente attratta. Sul tema della religione si accendono apertamente le ostilità fra le due donne: l’una accecata da una fede totalizzante, l’altra scettica fino all’ateismo. Entrambe hanno ricevuto un insegnamento cattolico da ragazze, ma solo una delle due ne ha fatto il suo credo durante la vita adulta.

Ossessionata dall’immagina di se stessa che proietta all’esterno e dal suo ruolo sociale di donna occidentale e istruita, Beatrice perde il contatto con le cose più semplici, con la naturalezza che l’esser madre le ricorda più di ogni altra cosa.

Non senza ragione, i nomi di Beatrice e del piccolo Arturo vengono rivelati solo al momento dell’incontro con Elsa, sebbene esso avvenga a narrazione inoltrata. È come se, per mezzo del confronto, Elsa, l’unica vera alterità nel romanzo, desse forma all’identità di Beatrice che, da quel momento in poi della narrazione, possiede un nome. Fra le pagine del romanzo, Elsa e Beatrice si cercano, si avvicinano e si allontanano. Beatrice desidera Elsa, brama il tempo che le concede occupandosi di Arturo e la serenità che le regala con il suo duro lavoro. Al tempo stesso, Beatrice non sopporta che l’amore di Arturo si incanali verso qualcun altro al di fuori di lei stessa.

Elsa porta in casa di Beatrice realtà della vita così violente con cui Beatrice non è assolutamente in grado di confrontarsi. Tutto quella verità, così platealmente esposta, è ingestibile per Beatrice: la sua gelosia cresce all’aumentare della sua ammirazione per Elsa, per il suo equilibrio emotivo e per la sua grazia. A salire, in un crescendo di tensione, fino al momento di rottura, che arriva brusco e inesorabile.

Molti anni dopo, Beatrice si diverte nel ritrovare, ancora una volta, nel corpo del figlio quei tratti somatici che per sempre li uniscono. La forma dei lobi, la fossetta sulla guancia, l’arco delle sopracciglia. Tutto questo le fa credere che Arturo sia e per sempre sarà suo, le fa credere di essere riuscita a superare quell’immensa distanza che la separava da un rapporto autentico con il figlio. Un miraggio annebbiato da una definitiva ambiguità.

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