Tutto il bene possibile. Sara Gambazza, “Ci sono mani che odorano di buono”.

In Letteratura

Un quartiere di periferia popolato da vite di periferia abituate a dimenticarsi di sé nella fatica dei giorni. I palazzotti bruschi, i parchi spelati, l’umanità a pezzi. E una giovane donna, sola, che decide di accogliere una sconosciuta in casa. Perché la vede morire di freddo su una panchina (o, forse, perché riconosce in lei la paura dell’abbandono). Uno smagliante esordio letterario in casa Longanesi: un romanzo in cui, dopo ere geologiche di impopolarità del bene, torna sulla scena qualcosa che ha pur fatto la storia dell’uomo. La gentilezza d’animo.

Può ancora il bene deliberato risultare profondamente eversivo? Può ancora cambiare le cose – anche lì dove nessuno più guarda, perché non fa bello, in mezzo a una comunità raccogliticcia di gente in vario modo abituata a sopravvivere tra le pieghe, nelle zone d’ombra, perseguendo una certa idea di dignità sul crinale della miseria?

Lo chiede, il romanzo d’esordio di Sara Gambazza, Ci sono mani che odorano di buono, pubblicato da Longanesi, a ciascuno dei suoi personaggi: uomini e donne di un quartiere di case dormitorio che sembrano pensate apposta come paradigma di desolazione, con gli alberi sparuti e un sole avaro, e un ricco parterre di scantinati e cavedi e anfratti perfetti per buttarci dentro discariche di sporcizia e disperazione. Perché questo, è, il Cinghio:

il quartiere disastrato di una cittadina per bene a cui non piaceva mostrare il sudiciume. Il Comune riqualificava parchi nei quali i ragazzini continuavano a compare droga e ristrutturava palazzine popolari in cui infilava creature a decine perché restassero ai margini, perdute in una periferia di sabbie mobili da cui non sarebbero mai uscite. Quelle creature, disperate e stanche, facevano figli destinati a soffocare nella miseria come loro.

Se, com’è, l’architettura prepara le relazioni, al Cinghio tutto pare perfidamente predisposto a impallinare sul nascere qualsiasi generosità umana. Così risulta ancora più dissonante quando Marta decide apparentemente d’istinto di trascinarsi in casa una perfetta sconosciuta perché prova una pena che non osa neppure confessarsi per quella nonna fuori luogo, coi suoi capelli a crocchia, seduta composta al gelo di una panchina vuota, in attesa di un nipote che non arriverà.

È, Marta, il fulcro di una serie di connessioni umane minime: la rete invisibile che, nonostante le brutture del quartiere, porta avanti quasi in segreto una persistente vicinanza, una normalità di vite stralunate disposte nonostante l’alto tasso di ferite intrinseche ad incontrarsi, semplici e guardinghe e attente alle variazioni dei reciproci rumori di pianerottolo.
C’è Ljuba, in fuga da un mondo che le ha tolto tutto; c’è Maria, che non sa più cos’è il presente, e Gianna, che di presente ne ha invece anche troppo; c’è Beniamino, che si uccide di notti come guardia giurata, e poi ci sono tutti i fantasmi del passato recente: la terza generazione del Cinghio pare aver saltato in blocco l’amore dei padri e delle madri – troppo impegnati a litigare, o a scomparire, o a morire male. Sono le nonne quelle a cui è legato il ricordo di un tempo in cui si poteva ancora pensare a un futuro che non fosse solo e sempre la linea dei bicchieri da inscatolare tra turni di notte e turni di giorno, il tempo della scuola e degli astucci che finivano in mano a chi era buono solo a fare il fetente, ma che poteva anche (anche, non sempre) incappare in qualcuno che alle angherie si frapponeva con sincera generosità. L’infanzia serve per capire di averla passata, e di essere, più o meno, sopravvissuti fino al qui e ora; perché, in questo passato recente, mescolato alla memoria olfattiva di sughi e minestre e torte, si nasconde per bene la radice di tutti i legami: sono, gli abitanti del Cinghio, non tanto vinti, quanto piuttosto in stato di patteggiamento con il loro destino. Hanno accettato di vivere negli interstizi la loro dose di desiderio segreto, di non manifestare il dolore che non è ancora trascorso, di proteggere le ferite.
Così, con parsimonia e controllo, le solitudini diventano meno blindate, e un poco di calore passa attraverso le pareti sottili dei caseggiati.

Da quando Bina (diminutivo di Bambina, un nome che non a caso nessuno riesce a usare, tanto meno per una ottantenne orfana temporanea del proprio nipote e del proprio passato) accetta l’ospitalità di Marta, però, tutto nelle vite del Cinghio comincia a scivolare, quasi che l’aver scongiurato la morte certa per gelo dell’anziana sconosciuta avesse fatto alzare di colpo la temperatura dei rapporti di tutti, inducendo ciascuno a uscire dal proprio immobilismo. A partire dalla protagonista stessa che, per la prima volta dopo tanti anni, osa tornare a ricordare quella parte della sua vita di figlia che tanto le è costata.

Si sentiva come quando la cucitura delle calze ti s’infila tra le dita e cammini, perché cosa vuoi che sia, ma continui a pensarci e, per il tuo cervello, esistono solo il piede e la cucitura, e le dita che stanno strane nelle scarpe.
La vecchia era la cucitura tra le dita.
Voleva buttare le scarpe, levarsi le calze, appallottolarcele dentro. E non pensarci più.

Bina che cucina, Bina che lava i piatti, Bina che costringe implicitamente a preparare la tavola perché non si mangia stravaccati sul divano, Bina che guarda la televisione, che ha bisogno di medicine, occupa il bagno per farsi la crocchia, dorme sul letto, ascolta con attenzione e dà sempre una parola: nel tempo di due settimane – tanto dura la vicenda raccontata da Sara Gambazza – Bina diventa casa, e ricorda a Marta la differenza tra vivere ed esistere. Una questione che, con estrema sofferenza, tocca anche a Fabio, il nipote scomparso, che scomparso non è; e a Genny, la giovane donna che cerca con tutta sé stessa di ritornare a sentirsi umana e ad affrancarsi dal danno in cui ha cacciato la sua esistenza.

C’è, in questo romanzo (che ha una scrittura vivida, capace subito di trascinare dentro le vicende), un intento per nulla banale, dati i tempi che occorrono – tempi nei quali, per qualche malintesa convinzione di modernità, la sfera del bene pare qualcosa di cui in fondo sia necessario vergognarsi.
Sara Gambazza racconta il bene come un luogo di possibile, insospettabile, tenace discontinuità. A volte prende il nome di speranza, a volte di cambiamento, a volte di resistenza; a volte, ancora, di liberalità: la capacità di essere, nonostante tutto, umani. Non è poca cosa.

C’è da scommettere che della voce di questa narratrice sentiremo, ancora, parlare.

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