Da poeta a poeta #1: Biagio Cepollaro legge Pagliarani

In Letteratura

Inizia oggi la nostra rubrica di poesia “Da poeta a poeta”. Ogni mese un poeta sceglierà un testo poetico di un autore per lui particolarmente significativo e lo commenterà per noi, spiegandoci i motivi della sua scelta. Ogni testo sarà accompagnato da un disegno di Carlotta Broglio, realizzato appositamente per Cultweek, che vuole essere un’ulteriore lettura della poesia. Iniziamo con Biagio Cepollaro che ha scelto un testo di Elio Pagliarani.

 

Ti dicevo al telefono (di cui
più mi prendono le pause, gli imbarazzi
docili, e se ci udiamo respirare)
ti dicevo al telefono un amore
che urge e perché

Elio Pagliarani, Inventario privato (1959)

Per chi leggeva, come me, la prima volta Inventario privato nei primissimi anni ’80, e come me, proprio allora cominciava a dedicarsi alla poesia come privilegiata espressione di un desiderio coinvolgente bellezza e verità, estetica ed etica, godimento e conoscenza, l’incontro con Pagliarani e con questo testo sarebbero stati probabilmente decisivi.

Si tratta di un canzoniere moderno: del canzoniere ha il soggetto amoroso, l’introspezione, il chiodo fisso,la coazione, il dissidio, la variazione sul tema, l’economicità dei segni, la trama della vicenda amorosa tra innamoramento, prove di relazione e delusione, frustrazione finale. Di moderno ha l’ambientazione metropolitana, la collocazione sociale del mondo impiegatizio, la toponomastica precisa, l’ideologia della guerra fredda e della bomba, la contraddizione tra pubblico e privato, il sospetto che la situazione pubblica sia un alibi per i problemi del privato, la sperimentazione formale per tenere dentro un registro basso-colloquiale una pluralità di piani e di allegorie.

Come può scaturire la poesia dall’impiego di mezzi così poveri? E cosa vuol dire scegliere questi mezzi, cosa si rifiuta con questa scelta? E poi sono davvero poveri questi mezzi? E, nel caso, in cosa consiste la loro ricchezza e cosa cambia dell’idea di poesia che in genere si ha?

I mezzi retorici qui sono elementi di disturbo rispetto alla sequenza abituale della lingua parlata. Il disturbo è come un’interferenza (spesso di carattere emotivo ma può anche essere raffreddante,critico). L’iperbato è la figura che interrompe la sequenza abituale o viene impiegata l’anastrofe che distorce con le sue anticipazioni la sequenza. A questo disturbo che crea distanza, che allontana, che rende difficile il flusso, vi è il movimento opposto delle figure foniche che invece tengono insieme e fanno da collante: assonanze, strutture paranomasiche, allitterazioni. Si crea così una feconda contraddizione tra il piano della retorica scritta e il piano della retorica orale, la prima analitica, separante, anti-naturalistica, la seconda sintetica, coinvolgente, musicale. Si potrebbe anche dire che la retorica analitica allegorizza il mondo industriale mentre quella orale è segno del mondo contadino: alienazione e vitalità che si contrappongono nel destino degli amanti metropolitani. Ma anche coesistono come una sfida. Così come la violenza dell’enjambement afferma e contemporaneamente nega il flusso del dire orale, sottolineando drammaticamente che la lingua parlata si sta consegnando al regime retorico della lingua scritta. Ed è proprio da queste interruzione che scatta l’incremento di bellezza proprio alla dimensione estetica.

Alla fine degli anni ’70 la reazione alle ricerche sperimentali da Officina ai Novissimi e al Gruppo 63 era ormai matura: l’antologia La parola innamorata, a cura di Pontiggia e Di Mauro, sul finire degli anni ’70, aggiornava non solo il vecchio ermetismo, crepuscolarismo ma addirittura si richiamava ad una visione mitologizzante della poesia. Erano gli anni di piombo a concludersi e c’era un generale richiamo all’ordine che sarebbe culminato nella Milano da bere di craxiana memoria. Era l’epoca del look e della pubblicità e la poesia, per lo più tenendosi alla larga da qualsiasi tentazione realistica, vi rispondeva con la ripresa del simbolismo, una sorta di ermetismo aggiornato. In un paesaggio di questo tipo i versi di Inventario privato usciti nel 1959 potevano risuonare come un potente antidoto al neoromanticismo di fine secolo.

In ballo era, soprattutto per le opere successive, anche il tema della poesia narrativa che dal verso lungo del doppio ottonario di Gozzano, era passata al verso martellante ed ‘oggettivo’ di Pavese per arrivare proprio a Pagliarani che coniugava il basso-colloquiale e la pluralità dei registri ad una spiccata tensione critica e meta poetica. L’interrogazione sul senso dello scrivere e della relazione vengono collocate nel contesto più vasto della storia. E viene anche indicata la possibile mistificazione dell’ideologia sempre pronta a prestare alibi nobilitanti alle miserie individuali.

Anche qui, in Inventario privato:

È difficile amare in primavere
come questa che a Brera i contatori
Geiger denunciano cariche di pioggia
radioattiva perché le hacca esplodono
nel Nevada in Siberia sul Pacifico
e angoscia collettiva sulla terra
non esplode in giustizia.
Potrò amarti
dell’amore virile che mi tocca, e riempirti
se minaccia l’uomo
sé nel suo genere?

O trasferisco in pubblico stridore
che è solo nostro, anzi tuo e mio?

L’ironia e l’autoironia di matrice crepuscolare non cercano autocompiacimento ma si stemperano nell’oggettualità delle scene, come quando la prolissità del reale è nominata fin dentro il dettaglio.

Sarà ora di chiudere,amore,
che smetta di fare la guardia al cemento
tra piazza Tricolore e via Bellini,
di coprirmi la faccia col giornale
quando ferma la E, di attraversare
obliqui la tua strada, di patire
anche a passarci in treno
in fondo a viale Argonne
vicino alla tua casa

La vicenda amorosa, la sofferenza psicologica sembrano distendersi nella toponomastica: destino comune, collettivo, teatro metropolitano di infinite vicende. E’ la città che guarda il ridicolo di una speranza che dispera: è il nome delle strade, è l’oggettività delle vicende storiche che si propongono come unico ancoraggio.

È una prova di lirica senza lirismo, di trattamento di materiali alludenti alla biografia senza biografismo. E’ una sorta di manuale anti-ermetico e anti-simbolista: la poesia nasce non dalla fumosità dell’evocazione ma dalla ‘precisione ‘, propria alla poesia, di una descrizione. La situazione perché reale, configurata nello stile come effetto di realtà, è poetica.

Amici spesso buoni mi deridono
Gianni sostiene che a leggere i miei versi
traspare che non amo o che non so
amare: se è vero un no
non ha sospetto che non so
vivere, Amore, e tu non vieni
ad insegnarmelo.

Qui è già presente il piano meta-poetico che spiazza con lo straniamento, e ricontestualizza la scrittura: retorica veritativa, ricerca di una verità esistenziale che è insieme intersoggettiva. La comunità degli amici non per istituire una società letteraria, come nel gioco cortese, ma al contrario, per sospendere la complicità letteraria in favore di una qualche realtà e di una qualche verità. Il piano meta poetico è utile proprio a questo: a sospendere e a impedire la facile suggestione e l’ipnosi della letterarietà in fondo fine a se stessa.

Alienazione e vitalità, industria capitalistica e mondo premoderno, contadino,o sfera semplicemente biologica: sono contraddizione che in modi diversissimi sono presenti o centrali nel lavoro di Volponi, di Di Ruscio, secondo altre declinazioni di Pasolini, o anche di Majorino. In Pagliarani queste contraddizioni storiche sono chiamate a dar conto della condizione umana, a definire una specie di cognizione del dolore: l’ideologia non salva, la poesia non riscatta ma sono necessari gli occhi aperti della critica della cultura e gli occhi commossi della poesia. Sono necessari per dare dignità al lavoro culturale e alla singola esistenza che a ciò si dedica.

Illustrazione di Carlotta Broglio

[Leggi qui gli altri interventi della rubrica]

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