“L’invenzione della madre”, romanzo d’esordio che si fa esplorazione semantica del rapporto madre e figlio nel momento più doloroso: quello dell’addio
La storia che Marco Peano racconta ne L’invenzione della madre è la storia di una corsa forsennata, di chi sa che l’incedere svelto delle proprie falcate è poca cosa rispetto a quello della malattia che consuma la madre, ma continua a correre. Il racconto s’incassa tra un’epigrafe di Donald Antrim, tematizzante l’inscindibilità di due vite, e la travagliata articolazione di una parola sofferta, sintesi dolce e maestosa degli universi vocaboli: Mamma.
Ascoltando Peano parlare del suo libro, leggendolo, si ha la sensazione viva e rara che la scaturigine della narrazione sia stata vissuta come un qualcosa di necessario, doveroso: naturale certamente, ma – ci tiene a precisare – “non terapeutico”. Un finir di consegnarsi al daimon che lo signoreggia, e un assottigliare il limes tra quelli che con miseranda terminologia strutturalista si sogliono definire narratore esterno e narratore interno.
Il libro è trifido, e tre sono anche i protagonisti: Mattia, il figlio; la Madre, il cui nome qualcuno pronunciava mettendo una O dove invece c’era una A; la malattia, un baturlo a cielo non già sereno, cancro recidivo. I pericoli nel trattare una materia così “incandescente” sono molti, primo fra tutti il dilagare del patetico, dell’emozione grezza. Le profilassi di Peano sono innanzi tutto retoriche: le ossessioni etimologiche e linguistiche tornano come una nenia irregolare: pallium (“il termine palliativo deriva dal sostantivo latino pallium, cioè mantello, cappa. L’aggettivo, nella terminologia medica, vuole suggerire il senso di qualcosa che avvolge, copre, protegge. Ma ciò che avvolge può anche soffocare”), onkos (utilizzata originariamente per indicare una massa, un carico), gerundi che si contraddicono, il ribellarsi dell’alfabeto della madre che un neurologo riconduce a un deficit del magazzino fonologico. Ma ho finora taciuto della più ovvia: la terza persona, la pudica distanza, il belletto, ciò che rende possibile raccontare.
Le parole in questo libro sono usate con grande precisione, e la parola “cancro”, per eccellenza elusa dietro alle più varie perifrasi (“male incurabile”, “brutto male”), non fa eccezione. Nel ripercorrerne a ritroso la storia dall’oggi all’antico Egitto l’autore si avvale del saggio L’imperatore del male di Siddhartha Mukherjee e alle sue riflessioni sui casi di tumore al seno ai tempi dei faraoni. Nessuna “malattia del secolo” dunque, ma malattia dei secoli. L’apostasia delle cellule ribelli, che turbano la compagine dell’organismo, ha accompagnato l’uomo lungo il corso della storia tutta. Ma non c’è un caso uguale all’altro, e Mattia indaga i paragoni usati per descrivere le metastasi: macchie bianche che si allargano come olio sull’acqua, frammenti appartenuti a una granata, pelle del leopardo, nodo di corda, susina, corn-flakes. Con amara ironia si dà conto dell’irriducibilità dell’esperienza a uno schema rigido e si rende testimonianza di piccoli gesti che si caricano di un significato smisurato. La valorizzazione degli attimi viene filtrata attraverso molte nevrosi: il tentativo di raccogliere il respiro della madre all’interno di tanti palloncini è forse il più ridicolo e maestoso. Come ridicoli e maestosi sono i fuochi d’artificio che Mattia e sua madre vedranno dalle finestre dell’ospedale all’inizio del nuovo anno, come ridicola e maestosa è l’esistenza stessa. Ma, come cantava Aznavour, «de l’amour à la mort, il n’y avait qu’un pas» e la morte arriva con passo pesante; la storia racconta l’elaborazione di un lutto apparentemente inelaborabile.
Mattia è commesso in una videoteca. L’associazionismo fuori controllo investe anche questa dimensione, continue sono le interpolazioni in cui si esprimono collegamenti tra la sua vita e quella raccontata nei film, e nota: «Nel 1997, i dvd vennero immessi sul mercato. Pochi mesi prima, nel corpo della madre si erano manifestati i primi sintomi della malattia».
La sera, prima della chiusura, a serranda abbassata, trae dalla borsa una videocassetta, la inserisce nel lettore e siede da solo, al buio. Le immagini sono quelle della madre quand’era sana, riprese fatte anni addietro da lui stesso. Immagini qualitativamente scadenti, fuori fuoco, imprecise. Ma necessarie. Come per Peano, ne sono convinto, è stato necessario questo libro.
L’invenzione della madre di Marco Peano (minimum fax, 2015, pp. 280, 14 euro)
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