Tre millenni di omosessualità

In Letteratura

Giovanni Dall’Orto ci mostra piuttosto dettagliatamente gli ultimi tre millenni di omosessualità, dedicando a ogni anno poco meno di una pagina del suo “Tutta un’altra storia”

Nonostante le «dolorose rinunce», Giovanni Dall’Orto ci mostra piuttosto dettagliatamente gli ultimi tre millenni di omosessualità, dedicando a ogni anno poco meno di una pagina del suo Tutta un’altra storia – Il Saggiatore, maggio 2015, 728 pagine di cui 178 di note e bibliografia, manca l’indice dei nomi.

Insomma un dizionario, ma diviso in tanti agili capitoletti in ordine cronologico. Così non ci si sente in colpa a consultarlo scriteriatamente, ad esempio per chiedersi come trovare un prostituto nella Roma imperiale, o quali siano i migliori cruising della Venezia quattrocentesca.

Dall’Orto ripercorre quest’altra storia, parallela alla storia ufficiale: la storia dei più vinti tra i vinti, che siano re – la «regina» Giacomo d’Inghilterra –, conti – Adenolfo IV d’Aquino, primo italiano al rogo -, o semplici borghesi che si innamorano durante una passeggiata sotto ai tigli – nella commovente lettera anonima di un omosessuale tedesco di inizio Ottocento. Attraverso i secoli ritorna quel concetto di «contro natura» che scappa proprio a tutti, oggi e nei tremila anni di inversioni riscoperte e documentate dall’autore. E ci scappa nonostante le psicoterapie, i discorsi del coming out con amici curiosi su come lo si capisca, le battaglie furibonde nell’intestino tenue su luoghi comuni che ritornano al primo bicchiere di troppo –”in fondo è perché sono narcisista”, “ho bisogno di rispecchiarmi nell’altro”, “non avrei dovuto giocare con quella Barbie”.

E poi attraverso i secoli si ritrovano gli altri prevedibili, eterni dibattiti: è nei geni come la calvizie, o si acquisisce nel proprio ambiente come lavarsi i denti a pranzo? È un comportamento o è un modo di essere? Questa applicazione alla vita sessuale dell’interminabile guerra tra empirismo e razionalismo è forse la più ridicola eredità che si possa lasciare agli etero e ai gay delle nuove generazioni.E le tracce sono antichissime, dice Dall’Orto: aristoteliche, persino parmenidee, stanno nelle pieghe di quelle filosofie che sembrano risolte citando uno dei quattro elementi naturali.

Con la polemica del militante e il sarcasmo del giornalista, Dall’Orto riporta alla luce preziosissime, introvabili fonti: giudiziarie, letterarie e di costume, per inquadrare ogni epoca con le sue abitudini, alla ricerca di una continuità gay di fatti e definizioni.

Poi ci sono gli irresistibili episodi di cronaca privata. Ci si affeziona al deluso Meleagro di Gadara, che rinuncia a essere paidomanes perché «che gusto c’è nel montare un maschio che pensa solo egoisticamente a prendere e mai a dare?». Si arrossisce con l’impertinente poesia burchiellesca che oppone alla vagina «piovosa» un più che «asciutto» ano. Ed è adorabile l’autoironia del passivissimo Pacifico Massimi, che sfata in versi una curiosa leggenda popolare secondo cui lasciarsi sodomizzare favorirebbe la crescita del membro – «se prenderlo in culo fosse servito a farmi crescere il membro, in erezione mi toccherebbe la testa, floscio, i piedi». Si scopre persino un’audace confraternita di portoghesi che a Roma fu spedita al rogo perché celebrava matrimoni gay con rito religioso, pionieri di un movimento omofilo cinquecentesco.

Lascia però perplessi la guerra aperta dichiarata da Dall’Orto a Foucault fin dalla premessa iniziale. Per il giornalista ci sono «fiumi carsici» che attraversano la storia dell’omosessualità e la rendono in qualche modo compatta. Per Foucault invece ogni epoca costituisce sempre un suo discorso, incommensurabile a quelli passati e futuri. Ma non credo esista uno sgabello metafisico su cui Dall’Orto possa sedersi e staccarsi dal suo contesto per giudicare il passato: le continuità trovate appartengono alla sua attualità. I concetti vanno storicizzati perché, per dirla con parole grosse, l’ontologia è ermeneutica. Se non si fa della filologia, l’unico lavoro possibile sulle fonti è – direbbe Foucault – archeologico: l’applicazione del proprio logos a una materia passata.

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