I fantasmi del caffè della gioventù perduta

In Letteratura

Il Nobel Patrick Modiano, scrittore che l’Italia sta scoprendo. Con le figure umane evanescenti che popolano le strade e i bar della “sua” Parigi

Patrick Modiano, un nome dall’eco tanto italiana eppure quasi sconosciuto nel nostro Paese. O almeno così era fino a qualche settimana fa, prima che l’effetto Nobel lo proiettasse direttamente sotto le luci della ribalta. E se uno dei più prestigiosi riconoscimenti internazionali riesce ancora a esercitare il potere della scoperta, vuol dire forse che qualcosa, nella complessa macchina letteraria moderna, continua a funzionare.

Così la contemporaneità ci introduce in un mondo allo stesso tempo noto e indistinto, in bilico sul sottile filo del tempo, tra le strade ormai mutate – ma forse proprio per questo più affascinanti – di una Parigi abitata da figure umane evanescenti: quello, per esempio, di Nel caffè della gioventù perduta. Un titolo che forse più di ogni altro riassume l’universo narrativo di Modiano, le cui tematiche si rincorrono costantemente tra un’opera e l’altra.

Tutto comincia in un bar, un café della rive gauche come un altro, se non fosse per la misteriosa figura femminile che attira l’attenzione del giovane frequentatore che introduce il racconto. «Louki» è il suo soprannome, lo schermo che, proprio come il bar, non ha altra funzione se non quella di «rifugio dal grigiore della vita», e soprattutto da se stessi. Louki è il fil rouge che attraversa una storia caleidoscopica perché tenuta insieme dalle voci di personaggi che di capitolo in capitolo si passano il testimone di una ricostruzione umana, oltre che narrativa. Dal giovane studente all’ispettore Caisley, dalla stessa Louki al compagno Roland: tutti raccontano un frammento della medesima realtà, tutti si celano dietro nomi o identità fittizie per perdersi tra le vie della città in una ricerca che è volta solo superficialmente alla donna, ma che finisce per sfociare nella loro interiorità profonda.

Nel caffè della gioventù perdutacome in Bijou, di cui potete leggere la recensione Cultweek, e in tutti gli altri titoli di Modiano  (di prossima edizione per Bompiani I viali di circonvallazione, Villa triste e Via delle botteghe oscure) – rappresenta dunque un giallo in potenza, ma in cui i personaggi si svincolano dalla trama prendendo il sopravvento su di essa, sulla dimensione temporale sfumata tra percezione e ricordo; e all’essere umano così messo a nudo non rimane che ancorarsi a un unico punto di riferimento: la città, lo spazio, i luoghi. Transitorie “zone neutre” di anime che riescono a respirare soltanto nella fuga, che mantengono però la loro concretezza: i marciapiedi sui quali i personaggi passeggiano, vagheggiando l’inconsapevolezza di incontri lontani, fungono da confini tra coscienza e memoria. Spesso li si evita per timore di «incontrare fantasmi» del passato; a volte, conducendo a porte chiuse sul rimosso o aperte verso l’ignoto, si trasformano nel contesto ideale per elaborare la verità, prendere decisioni – anche incomprensibili. Le strade di Parigi, vivide come in una fotografia, assurgono al ruolo di protagoniste del romanzo, perché pregne di tutto ciò che avrebbe potuto essere o che è stato, in un presente eterno che abbraccia storia e contemporaneità.

La ricerca dell’identità e quella – illusoria – di legami umani che in qualche modo la convalidino si intrecciano alla memoria per creare un circolo tematico vizioso particolarmente caro a Modiano: «sempre l’ossessione dell’Eterno Ritorno». Sempre, sì, sembra rispondere l’autore: perché gli interrogativi che lo assediano, e che gravitano tutti intorno alla natura profondamente inattingibile dell’essere umano, non possono trovare soluzione. E forse era proprio a questo che si riferiva l’Accademia reale svedese quando ha deciso di consacrare Patrick Modiano e la sua opera, i suoi «destini umani più inafferrabili».

 “Nel caffè della gioventù perduta” di Patrick Modiano (Einaudi, pp. 128, 14 euro)

Foto di Lars Erik Skrefsrud

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