Liberati dal maligno: il Maestro e Margherita in scena al Piccolo

In Teatro

ll Piccolo prosegue il suo viaggio all’insegna di una rilettura dei classici con occhio politico e
contemporaneo, mentre ci sonda e interroga tra riprese, ospitate e produzioni.
Basterebbe l’Amore, se possibile.

Un bunker, una cella di un istituto psichiatrico, una strada dove passa un tram che investe vite, o meglio quella di Berlioz, presidente dell’associazione letteraria Massolit.

Il poeta Ivan Nikolaevič e il critico dissertano sull’esistenza di Ieshua.

Woland è arrivato, s’intromette nella discussione, testimonia l’esistenza di Gesù Cristo e vaticina il triste epilogo a Berlioz.

«Non è colpa mia» si sente pronunciare,  luce di fari illumina la platea.

Woland vola sulla città di Mosca, stalinista. Assume le sembianze di un mago di magia nera, attore unico di un varietà dai costi milionari.

I muri della cella diventano lavagne, Margherita scrive «Non aver paura» per farsi riconoscere dall’amante internato di cui è innamorata. «Liberati dal maligno, perché sono rimasti maligni».

Il monito è all’uomo.  Woland s’incunea laddove gli esseri umani prestano il fianco a sete di vendetta, malinconia e rancori. Tra bene e male vacillano cittadini, strade, piazze, amanti, sciamani, medici, traditori.

Tredici/quarantasette, tredici/quarantotto, tredici/cinquanta.

 Cala un’altalena. Oscilla come gli uomini, ma salire ha un prezzo.

 Margherita ci si dondola, Natasha l’affianca.

Woland è il regista di possessioni dionisiache.

Le donne sono pronte a sacrificarsi per un sentimento e  mostrano un altro lato del loro volto. Woland accetta in fondo che uomini e donne siano quel che siano.  Ne accoglie luci e ombre, ma sa riconoscere l’amore quando è vero e  di fronte ad esso arretra.

Tre le storie che vivono all’intero del capolavoro letterario Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov, opera censurata e pubblicata in Russia nella versione ufficale curata da Lidja Janovskaja solo nel 1989 : l’amore di Margherita e Il Maestro, in fondo una rappresentazione biografica dell’autore di se stesso, la vicenda storica di Ieshua e Ponzio Pilato, l’arrivo di Woland a Mosca.

Il Maestro è internato per follia e disperazione in una cella, dopo essere stato distrutto dalla scarsa lungimiranza della critica, il suo romanzo non è ben accolto e a Margherita (interpretata dalla giovane promessa Federica Rosellini) tocca ritrovare quell’uomo perso e disperso grazie al quale si è salvata da infelicità di sposa. Almeno fino a un certo punto. Per riprendere quello che aveva stringe un patto con il diavolo, tra Faust e Mefistofele,la donna arriverà puntuale, a differenza di Levi Matteo, sul suo Golgota. Nel frattempo il suo amato, tra umorismo e dramma, è rinchiuso nella cella del nosocomio insieme a Ivan/Ieshua interpetati da Oskar Winiarski. Abile a calarsi nei diversi ruoli intrecciandoli. È  possibile una rappresentazione a metà tra un essere medianico e un uomo percepito come pazzo? Forse, anche se il raffronto potrebbe apparire irriverente,  Ivan e Ieshua  in fondo non sono poi così diversi.

 La trama intessuta dal Maestro è “presto” detta. Pilato è un uomo rimasto affascinato da Ieshua, l’unico che sa leggergli l’anima e indovinare la causa di forti mal di testa dovuta a un’assenza di affetto. Quella del suo cane. Ieshua lo invita a una passeggiata, ma coglie il lato chiuso e sfiduciato di Pilato. Come può amare l’umanità, un uomo privo ormai di fede nell’uomo?.

Pilato tenterà di rendere la morte di Ieshua, voluta dal Sinedrio, più dolce. Gli offrirà un veleno per soffrire meno sulla croce. Una condanna voluta, in realtà, dal popolo che scelse di liberare Barabba.

Viene in mente Il Vangelo secondo Pilato, libro scritto da Éric-Emmanuel Schmitt nel 2000.

«Gerusalemme è imprevedibile» si sente ripetere nel corso dello spettacolo, un’ espressione che si fa metonimica sineddoche.

Gli esseri umani a volte sono rivoluzionari, a volte inermi. Giudicano, sbagliano scelte, prestano il fianco all’odio. Woland ci ricorda che intorno ai vitigni d’uva che crescono oggi, aleggiano fiumi di sangue. La storia prosegue. E si ripete.  Noi ora, oggi siamo qui. Sarebbe stato lo stesso delle nostre esistenze senza l’avvicendarsi di guerre?.

Cinico e realista, Woland  continua a prendere con sè il lato oscuro degli uomini.

«Le ombre provengono dagli uomini e dalle cose. […] Ma ci sono le ombre degli alberi e degli esseri viventi. Vuoi forse scorticare tutto il globo terrestre, portandogli via tutto quanto c’è di vivo per il tuo capriccio di goderti la luce nuda?».

Woland si rivolge così a Levi Matteo che a sua volta si fa portavoce di imperativo divino.

 Margherita e Il Maestro avranno la pace – il riposo eterno. La luce no. La morte  arriva per mano di  Margherita. La donna, dopo essersi trasformata nella regina di Satana impugnerà un coltello e porrà fine alle sofferenze di una vita condannata alla miseria.  La musica impattante di Magneto di Nick Cave nell’avvicendarsi dell’azione scenica compie tutto il resto.

 Woland persuasivo agisce un destino, ma Margherita esegue l’azione finale.  << Liberati dal maligno, perché sono rimasti maligni>>, ma il maligno abita nell’animo umano. Nella cistifellia che produce e travasa bile per sete di vendetta e rancore. Il contrario dell’amore è la paura, il contrario del demoniaco l’Amore. Bulgakov aveva studiato medicina. << E se lo spirito si trovasse nella cistifellia?>>. Il pubblico in sala ride a questa battuta mentre lo spettacolo si svolge. Ma è più di parole scritte e pronunciate. I tristi malinconici sono personaggi che hanno imperversato nelle pagine di letteratura. Basti pensare a Iago. E alla storia.

Quello di Margherita da un certo punto in poi ha smesso di essere amore. Era più che altro il desiderio di mantenere uno status quo. La vita ha fatto il suo giro.

Gli uomini nella loro imprevedibilità restano, in fondo, più prevedibili di quel che si possa pensare.

Basterebbe l’Amore, a pensarci, se possibile.  

Michele Riondino nella sua versione di Woland piace, soprattutto agli studenti. Ha l’apparenza estetica della maschera di Joker – in linea con i tempi. Cerone bianco e bocca rossa. Seppure il lavoro di costruzione del personaggio di Riondino sia partito dalla figura del nobile decadente descritto dal drammaturgo russo arriva alla volontà di procedere per sottrazione e di  tentare di restituire alla figura di Woland tratti più disincarnati.  È più affascinante, grottesco, suasivo.

Intanto nel gioco del teatro nel teatro, i fari vengono puntati sugli spettatori. Luci che individuano e abbagliano. Forse interrogano. 

«Divinità, valori, ideologie, saldano i rapporti tra gli uomini e danno forma alle società permettendo a migliaia, milioni di persone, di muoversi nella stessa direzione. Condividere questi pilastri immateriali è un atto di fede involontario che garantisce la sopravvivenza delle comunità umane. Ma che cosa succede se qualcosa, o qualcuno, arriva a inoculare i semi di caos nelle maglie di una struttura umana formata e solida?»  interroga Letizia Russo con il suo lavoro di riscrittura.

Questo il sottotesto che risuona in continuazione sullo sfondo della regia di Andrea Baracco resa ancor più efficace da una macchina scenica d’effetto grazie al lavoro di Marta Crisolini Malatesta, delle luci di Simone De Angelis, delle musiche di Giacomo Vezzani.

«Non è colpa nostra». Degli esseri umani. Chissà?

Il Piccolo prosegue il suo viaggio all’insegna di una rilettura dei classici con occhio politico e contemporaneo, mentre ci sonda e interroga tra riprese, ospitate e produzioni.

FOTO © GUIDO MENCARI

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