Lehman Trilogy: il capitalismo va a teatro

In Weekend

Luca Ronconi porta in scena la storia della Lehman Brothers Bank. 160 anni di una grande famiglia capitalista ebraica svaniti in un giorno solo

Lehman o Lehmann? Una o due N? In sintesi grafica, ma il senso è la radice ebraica del cognome evidente nella doppia (come insiste il nostro Gassmann), è la parte del dramma che piace di più a Luca Ronconi, giunto dopo un mese alle ultime prove dello spettacolo in due giornate Lehman Trilogy, kolossal della stagione, in scena al Piccolo Teatro dal 29 gennaio (inizio alle ore 18, due ore dopo l’inizio delle votazioni per il presidente della Repubblica) al 15 marzo, a sere alterne con predominanza della prima sulla seconda parte (28 a 22) e alcune “filate” evento nel week end. E magari si può ricordare che negli anni 60 al Lirico Grassi e Strehler avevano messo in scena, a teatri semivuoti, l’anticipatore Il crack di Roberto Roversi. Cicli e ricicli.

Due serate distinte, di 2 ore e 35’ la prima (titolata come il film di Rosi Tre fratelli) e 1 ora e 50’ la seconda (titolata come il cult sovietico di Dodin, Padri e figli ), per raccontare, col cannocchiale rivolto all’indietro, la resistibile ascesa dei tre famosi fratelli banchieri che venivano dalla Baviera. Dal loro arrivo negli States, come tutti i Roth e i Singer e i Wilder in cerca di fortuna alla crisi del ’29 – qui finisce il “primo tempo” – poi New deal, anni kennedyani, guerra, fino al cambio di valore della moneta: non più prestiti sonanti ma finanza virtuale, il gusto del plus valore da Paperon de Paperoni, fino all’altro crollo, quello a noi contemporaneo,  del 2008.

La Lehman trilogy già andata in scena con successo a Parigi nell’autunno 2013 (e in forma di reading altrove, anche in Usa), è un testo di Stefano Massini, pubblicato nella versione integrale di 334 pagine da Einaudi. Ma l’edizione scenica è necessariamente tagliata: neppure Ronconi che non teme le durate monstre se l’è sentita di superare suoi record storici. Massini è oggi lo scrittore italiano più rappresentato, si considera non un drammaturgo classico ma uno “che dà la parola agli attori”. Ha dato parole bellissime a Ottavia Piccolo (e ad altre attrici), in questi anni, che in suo monologo è stata Donna non rieducabile sul caso Poliktovskaya ed ora recita il thriller sindacale al femminile 7 minuti, mentre la storia dei Lehman bros è molto al maschile.

Ha un futuro roseo, Massini: in Francia la famiglia Brook (il 90 enne Peter e i suoi cari) l’ha voluto scrittore residente, tipo “dramaturg”, al Teatro Nazionale di Nizza, mentre il Piccolo di Sergio Escobar gli ha commissionato già un nuovo testo, stavolta tutto di donne e sul terrorismo, in scena la prossima stagione, probabilmente ancora con Ronconi, che molto raramente adotta giovani nostrani (laddove il giovane è un lanciatissimo 39enne). Le previsioni del tempo sono invece meno rosee sul piano della distribuzione della ricchezza nel mondo: nel 2016, cioè dietro l’angolo, l’1% della popolazione sarà più ricco del restante 99%.

Ed infatti il teatro si occupa e preoccupa dell’economia anche con la commedia tedesca di Philipp Lohle Gospodin (a Milano dal 22 al 25 gennaio al Menotti) con Claudio Santamaria nei panni di un uomo semplice che non vuole avere niente, ma proprio niente a che fare nella sua vita con il denaro. Soldi, soldi, soldi, si cantava nell’Italia del boom su musica di Kramer, parole di Garinei e Giovannini e tette della Loren. «Ma più che la traiettoria della drammatica crisi economica che penso materia nota al pubblico – dice il regista – mi interessa l’antropologia di una famiglia di stretta osservanza ebraica che, a contatto col capitalismo degli States, perde un poco alla volta la sua identità, come dire che vince la finanza sulla religione, le tradizioni, la cultura di un popolo: la perdita di una enne è un segno sintomatico che allontana la grafia yiddish».

E c’è tutto il gran processo di famiglia, i tre capostipiti visti nel corso di 160 complicati anni di capitalismo, da quando i Lehman iniziarono la loro attività commerciale a Montgomery, Alabama (luogo caro alle metafore marzian-brechtiane, vedi Mahagonny) fino al fallimento della loro banca di New York. Ha spiegato Massini: «Ho dedicato tre anni a questo testo perché non amo l’economia, sconosciuta alla maggior parte delle persone che però quotidianamente ne subisce le conseguenze. Valeva la pena tentar di raccontare una grande odissea capitalistica, senza bisogno di giudizi morali ma osservando come cambia il mondo e l’economia ne asseconda le evoluzioni».

Prima il cotone, il carbone, ferrovie, petrolio, beni materiali; poi banca e finanza, beni immateriali, la speculazione del Dio Dollaro. Intanto il sogno americano cambia a vista, diventa incubo, il cinema passa dal new deal con happy end di Frank Capra alle visioni horror di Oliver Stone o Martin Scorsese, osservatori dei dèmoni di Wall Street. Tanti caratteri, tanti uomini. «Di questo testo – dice Ronconi – mi ha entusiasmato la varietà dei registri usati: un saggio, un romanzo, un racconto onirico, una sceneggiatura, ma senza la banalità di una cronaca moralistica impugnata, bensì con la voglia di dirigere un percorso di conoscenza». Che è, come è noto, è quello da sempre prediletto dal nostro maggior regista: «Non fare lezioni in sala -Brecht non mi piace, lo feci quasi per ripicca –  niente verità preconfezionate,  ma sperare che tutto quello che lo spettatore vede e sente, col cuore e col cervello, sarà materia di riflessione domani: quindi più analisi che cronaca».

Se son rose teatrali, fioriranno, sempre in equilibrio delicato tra letteratura e teatro, dentro e fuori il reale, tra l’io e la terza persona, esercizio che sta a cuore allo stile ronconiano, da Gadda a Nabokov a Gombrowicz. Del resto sul tema dei soldi, Ronconi aveva allestito ai tempi delle Olimpiadi di Torino Lo specchio del diavolo dell’economista Giorgio Ruffolo, poi La compagnia degli uomini di Bond, tre anni fa con un gruppo rigorosamente virile tra cui spiccava l’oggi 93enne Gianrico Tedeschi. Nel nuovo spettacolo, sostiene Luca, scene semplici, di Marco Rossi, ma pare che il palco sia cosparso di botole, come da sadica usanza personale. Regime monacale anche in compagnia, un gruppo straordinario di primi attori molti dei quali “fratelli” teatrali del regista avendo con lui fatto primi e secondi passi: in ordine generazionale ecco il patriarca Massimo de Francovich, Massimo Popolizio, Fabrizio Gifuni, grande new entry che arriva dopo lunghe stagioni di trionfali monologhi, passando ai rami cadetti di Paolo Pierobon fino a Fabrizio Falco e Fausto Cabra, che, alla morte dei “vecchi”, ha in mano il secondo tempo.

Uomini e donne (solo Francesca Ciocchetti), padri e figli e nipoti, Torah e Pil, rabbini e indice d’interesse, tra storici agguati: i Lehman rischiarono di fallire prima con la guerra di Secessione, con i due conflitti mondiali, con la Grande Depressione, ma si risollevarono sempre, fino alla tragica bancarotta del 15 settembre 2008 di cui ancora subiamo le conseguenze. «Quella di Massini è una drammaturgia adulta che ci apre porte e offre elementi per capire, seminando nel copione riferimenti alla Bibbia, alla radice ebraica della famiglia: ma l’appartenenza si appanna, unico nuovo culto sarà il capitalismo».

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