Il ballo fuori tempo di Andrea Scanzi

In Interviste, Letteratura

Scanzi ci racconta una storia divertente, personaggi satirici e situazioni paradossali che rispecchiano problemi e contraddizioni dell’Italia di oggi

Andrea Scanzi ha pubblicato il suo primo romanzo, La vita è un ballo fuori tempo (Rizzoli, due edizioni in tre giorni). Con lo stesso stile caustico e ironico con cui racconta le sfumature del presente, il giornalista de Il Fatto Quotidiano ha scritto una storia divertente, fatta di personaggi satirici e situazioni paradossali, in grado però di rispecchiare molto da vicino i problemi e le contraddizioni dell’Italia di oggi.

La storia è ambientata nell’immaginaria Lupinia, una piccola cittadina come tante. Qui abita Stevie, un giornalista quarantacinquenne ormai disilluso e sconfitto dalla vita, costretto a scrivere di calcio su La Patria, un piccolo quotidiano locale filogovernativo. Stevie è l’esatto opposto del collega Rayban Segunti, un giovane stagista ancora pieno di sogni e di ideali, che però non vengono condivisi dalla maggior parte di chi gli sta intorno. Infine, c’è il nonno di Stevie, Sandro, sosia di Pertini: ex staffetta partigiana, ora è un 90enne arzillo e vitale che, insieme ai suoi amici coetanei, vuole creare una linea di videogiochi per la terza età. Sullo sfondo, la grottesca classe dirigente del Paese: il Capo del Governo, Tullio Stelvio Bacarozzi, un fanfarone disonesto ma celebrato da tutti i media, e un ministro ridicolo, Elena Pia Bozzo che ama ripetere ‘Noi-sia-mo-il-be-ne‘, quasi fosse un mantra.

Un giorno tutti i giornali del Paese ricevono il ‘Decalogo del Giornalismo del bene’: un elenco di consigli agli organi d’informazione per infondere «positività e fiducia», che in realtà è un ulteriore strumento di fedeltà al governo a scapito dell’oggettività. E’ proprio a questo punto che Stevie si rende conto di essersi lasciato andare a «uno spegnersi adagio, giorno dopo giorno», di non aver fatto nulla contro la situazione degenerante del Paese e di aver permesso che tutti i suoi ideali morissero a poco a poco. Grazie all’aiuto del nonno e del giovane Rayban, alla fine del romanzo, Stevie riesce a mettere in atto la sua piccola rivoluzione contro il potere. E, cosa più importante, ritrova quel faro di speranza per sé e per il Paese, che credeva di avere perduto per sempre.

«Attraverso Lupinia volevo raccontare l’Italia», ci ha detto Scanzi ad un certo punto dell’intervista. La vita è un ballo fuori tempo, infatti, dietro lo stile graffiante e i simpatici personaggi, che fanno del romanzo un libro godibilissimo, è una riflessione amara sulle miserie di un presente con cui dobbiamo fare i conti ogni giorno. Perché aveva ragione Italo Calvino, quando diceva che «la salvezza va cercata nell’ironia e nel sorriso».

Hai dichiarato che scrivere un romanzo è sempre stato il tuo sogno sin da bambino, ma che ci hai messo quarantanni anni per trovare il modo di scriverne uno. Come ci sei riuscito?
La vera sfida è stata trovare dentro di me il coraggio, la voglia e l’autostima necessarie per scrivere un romanzo. Oggi tutti scrivono libri, ma per me il romanzo era una cosa seria, altissima, e non volevo cimentarmi in questo genere per caso. Beppe Fenoglio, in una lettera a Calvino, che lo esortava ad abbandonare i racconti e a scrivere finalmente un romanzo, rispose inizialmente che non si sentiva in grado: credeva di non possedere il ritmo giusto, la capacità, temeva di annoiare il lettore. Ecco: se pure un dio come Fenoglio aveva paura, figurati io. Un anno fa, dopo il successo del mio ultimo saggio, Non è tempo per noi, Rizzoli mi ha chiesto di scriverne un altro. Io gli ho risposto, quasi in modo incosciente, che ero stanco di fare saggi e biografie, e che il prossimo sarebbe stato un romanzo: prendere o lasciare. Loro hanno accettato e la scorsa estate mi sono messo all’opera. Ho terminato la prima stesura in appena due settimane. Non uscivo di casa, non mi radevo più e staccavo il cellulare per ore: ma,   in compenso, ogni giorno finivo un capitolo. Dopo sono seguiti diversi mesi di correzioni e miglioramenti, ma il nucleo della storia c’era già, scritto di getto in quel torrido agosto, dopo un sogno atteso per quarant’anni.

La vita è un ballo fuori tempo è una frase che, ad un certo punto del romanzo, il nonno Sandro sussurra a Clarabelle, il cane di Stevie. Perché hai scelto proprio questo titolo?
Questa è una parte del libro a cui tengo molto, perché in tante storie che ho amato c’era sempre un cane geniale, dal Ciclo di Malaussène di Pennac ai racconti di Saramago. Sandro, ad un certo punto, dice: «La vita è un ballo fuori tempo, Clarabelle»; e il labrador abbaia, quasi in tono di assenso. Tutti i protagonisti del mio romanzo vivono un tempo che non gli somiglia, sono fuori sincrono, ed è come se cercassero la sintonia giusta con la manopola della radio. Stevie è fuori tempo con se stesso, con una misera realtà che gli ha infranto ideali che aveva all’università e, con essi, la forza per cercare un futuro migliore. Gli anziani sono fuori tempo, perché vorrebbero fare la rivoluzione ma, a 90 anni, è forse troppo tardi. E anche il giovane stagista, Rayban Seganti, è fuori tempo, perché coltiva sogni non condivisi dalla gran parte di chi gli sta intorno. Alla fine del libro, questi personaggi, però, riusciranno a sentirsi un po’ più in sintonia con il loro mondo.

 I tre personaggi principali del romanzo, Stevie, Sandro e Rayban, hanno età anagrafiche e caratteri completamente differenti. Puoi spiegare perché hai scelto proprio loro?
Mi piaceva che la storia si sviluppasse sul confronto tra generazioni lontane, con vissuti e modi di pensare diversi. La generazione di Stevie è la mia, l’età di mezzo dei quarantenni, mediamente pessimista e un po’ bastonata dalla vita. I suoi amici sono figure buffe, caricaturali: un playboy cinico, un cassiere di un night club vessato dalla moglie, un tennista fallito che avvia un crowfunding per partecipare a un torneo, o quello che per sopravvivere fa la cavia di prodotti drenanti. Dall’altra parte c’è Sandro, che somiglia molto a mio nonno, anche se il nome è un omaggio a Pertini. Da buon toscano, sono cresciuto anche nei circoli sociali, dove gli anziani giocano a briscola o a scopa, si arrabbiano, bestemmiano: sono stato sempre affascinato dalla generazione dei miei nonni, dalla vitalità straordinaria che hanno nonostante l’età. Per questo, all’apatia indolente di Stevie, ho deciso di contrapporre l’energia del nonno. E’ anche un campanello d’allarme per avvertire che molti anziani hanno più voglia di vivere di certa gente molto più giovane. Infine c’è Rayban, il giovane stagista, che rappresenta la speranza, il coraggio di dire che dobbiamo ribellarci contro quello che non funziona; che magari saremo sconfitti, ma almeno ci abbiamo provato.

Quanto di autobiografico c’è nella storia? Ti rispecchi in un personaggio particolare?
C’è parte di me in tutta la storia e in molti personaggi, ma in nessuno in particolare. Stevie ama il blues come me, ha la fissazione per i piedi delle donne come ce l’ho io, però è anche più dolce e più buffo di me. Il nonno, che assomiglia al mio, condivide la mia passione per i vini. E poi c’è quello che gioca a tennis, che ricorda un mio amico, e il migliore amico di Stevie, un misogino disilluso che non crede nell’amore eterno – che rispecchia un po’ il mio inguaribile cinismo. Infine Rayban Seganti, che ha la stessa energia e gli ideali che avevo io a vent’anni quando facevo i primi passi nel giornalismo. Penso che quasi tutti gli scrittori si ispirino al proprio vissuto per le loro storie. Ma vorrei che fossero soprattutto i lettori a riconoscersi in questi personaggi, che credo riflettano molte caratteristiche del nostro tempo.

Come mai hai scelto di ambientare questa storia nel paese immaginario di Lupinia, e non nella tua Cortona, ad esempio?
L’ultima cosa che volevo era scrivere il classico libro autoreferenziale o troppo realistico, finendo per deprimere il lettore – o peggio – annoiarlo a morte. Così ho deciso di ambientare la storia in un mondo inventato, con personaggi ironici e caricaturali, seguendo esempi molto più eccellenti come Calvino, Vonnegut, ma anche Benni o Pennac: autori che, attraverso la parodia e la farsa, probabilmente hanno raccontato il mondo in cui vivevano molto meglio di qualsiasi saggio socio- politico di seicento pagine. Ne Le Città Invisibili o ne Il Barone Rampante non c’è bisogno che l’autore espliciti che sta parlando dell’Italia; la vedi, è già lì davanti ai tuoi occhi, in tutti i suoi crismi e le sue contraddizioni. Così io, attraverso Lupinia, volevo raccontare l’Italia. Nella mia storia credo che molti aspetti del nostro Paese siano resi in modo evidente: la crisi che preme su ogni persona, il governo furbacchione, il giornalismo di parte, la mancanza di ottimismo e l’apatia diffusa. Ho scelto di non riferirmi a nessuna persona reale, lasciando che il lettore faccia da solo le interpretazioni e i riferimenti del caso.

Nel romanzo dipingi la classe dirigente come un gruppo di ministri ridicoli, disonesti e avidi di potere. Per analogia, sembra evidente che tu non abbia un’alta considerazione della politica italiana…
Questo è il tempo in cui vivo, e che non potevo esimermi dal raccontare. Non mi piace chi racconta di amore, di casa in collina, non credo a chi canta al vento che stiamo tutti vivendo una grande favola. Tullio Stelvio Bacarozzi è un presidente tronfio, volgare, dittatoriale e insopportabile ma protetto dal giornalismo: se a qualche lettore ricorderà una persona in carne ed ossa, il problema non sarà mio ma di chi – a causa delle sue azioni – viene accostato a un personaggio così grottesco.

Il giornalismo, invece, è descritto come pavido, ipocrita, debole e asservito al potere. In generale, che considerazione hai dellinformazione in Italia?
Quello che vedo oggi è in gran parte quello che ho raccontato nel mio libro: un giornalismo di propaganda che corre «in soccorso del vincitore», per dirla come Flaiano. Oggi, poi, c’è una corsa a riverire il governo Renzi come mai ho visto nella mia vita. Naturalmente ci sono le dovute e meravigliose eccezioni, con ottimi professionisti e quotidiani molto autorevoli.
Credo che quella del giornalista sia un’attività nobilissima, che bisogna saper fare, e soprattutto voler fare: quella di dare le notizie e scrivere sempre quello che si deve e che si pensa. Per questo io, nelle interviste, rispondo sempre che potrei scrivere solo per Il Fatto Quotidiano, che mi dà una libertà che nessun altro giornale mi potrebbe dare. Il Fatto è casa mia. A volte veniamo accusati di essere rosiconi, disfattisti, gufi polemici; in realtà credo che abbiamo semplicemente scelto di essere onesti, brutalmente onesti, con il lettore. Senza fingere che vada tutto bene.
La nostra professione, poi, riflette anche una delle innumerevoli ingiustizie dell’Italia: da una parte vedo una certa casta intoccabile che spesso disonora il mestiere, e dall’altra giovani giornalisti capaci, proprio come Rayban Seganti, che non hanno spazio o possibilità economiche per poter andare avanti.

 Quali sono state le tue reazioni alle devastazioni dei black bloc nel cuore di Milano durante la manifestazione No Expo?
Ho provato molta rabbia, vergogna, dolore. Sono profondamente incazzato con questi criminali, non solo perché hanno rovinato questa città che adoro. Hanno anche infangato coloro che contestavano in maniera garbata, civile e democratica. Sono ferito, perché queste violenze rischiano di negare il diritto di protesta ai manifestanti pacifici, danno spazio alle generalizzazioni senza alcuna forma di distinguo, all’equazione “Se sei contro l’Expo allora sei un delinquente”. La stessa cosa, del resto, era successa a Genova nel 2001. I black bloc fanno inevitabilmente il gioco dei poteri forti che vorrebbero combattere, perché limitano l’azione e la libertà sacrosanta di non mostrarsi d’accordo con il governo. Mi viene in mente una frase di Gaber, quando in Io se fossi Dio, parlando dei terroristi, cantava: «Mi hanno tolto il gusto di essere incazzato personalmente». Oggi potrei dire la stessa cosa. Mi fa rabbrividire, poi, il vuoto polverone di accuse e contraccuse che si è scatenato in questi giorni: ad esempio, le inutili invettive nei confronti di Fedez o J-Ax, che hanno semplicemente dichiarato di essere solidali con la protesta e – solo per questo – sono stati comicamente accusati di essere i mandanti degli estremisti. Si attaccano i rapper, mentre un pessimo Ministro come Angelino Alfano, rimane seduto sulla sua poltrona.

Ne La vita è un ballo fuori tempo, alla fine la rivoluzione si compie, seppur minima e trascurabile. Non è un happy end, ma infonde un po’ di speranza di cambiamento. Tu sei positivo per il futuro di questo Paese?
Non nutro un grande ottimismo sul grado di coscienza civile dell’Italiano medio. Non dimentichiamoci che siamo uno dei pochi Paesi occidentali che la rivoluzione non l’ha mai fatta, se si esclude la meravigliosa esperienza dei partigiani. Nella storia abbiamo sopportato tutto, dimostrando un grado di assuefazione e masochismo oltre ogni immaginazione: prima Mussolini, poi quarant’anni di Democrazia Cristiana, quindi Craxi e infine il ventennio berlusconiano. Ora rischiamo di attraversare altri vent’anni governati da uno che gli assomiglia e che forse è ancora più pericoloso perché, indossando la casacca del Centrosinistra, è molto più protetto dal giornalismo italiano, che gli consente di fare quasi tutto quello che vuole. Da noi vige la restaurazione, il gattopardismo, un modo di pensare destrorso per cui tutto deve cambiare affinché tutto resti com’é: l’ex sindaco di Firenze è perfettamente funzionale a proseguire questa tradizione. Tuttavia, credo anche che in Italia esisteranno sempre piccoli avamposti utopici di resistenza, una minoranza che vorrà qualcosa di diverso, di migliore; oggi lo vedo in parte nel Movimento 5 Stelle, in chi spera in Landini, in chi avrebbe voluto un Pd più simile a Civati che alla Boschi. Nessuno di loro, beninteso, vincerà mai le elezioni: gli avamposti di resistenza, in Italia, sono e saranno sempre minoranza.

Si dice che molti giornalisti siano in realtà scrittori mancati. Sei daccordo?
Dipende dal tipo di giornalisti. Se chiedi al cronista o al giornalista politico se il suo sogno è scrivere un romanzo, nella maggioranza dei casi ti risponde di no. Marco Travaglio, che per me è un fratello maggiore oltre che un maestro, scrive saggi e articoli con uno stile spesso ironico e molto curato, ma non ci pensa neanche ad abbandonare la realtà per il romanzo.

Poi esiste un’altra tipologia di giornalisti, quella in cui rientro io, che è la firma: la penna. Chi cerca i miei articoli non si aspetta tanto di leggere una notizia, sa benissimo che non sono né sarò mai un fenomeno come Marco Lillo. Cerca, da me, una chiave di lettura diversa: un’interpretazione “altra” della realtà, si spera originale e arguta. Per giornalisti come me è molto facile ‘cedere’ alla libidine di cimentarsi in un romanzo. E’ successo a Michele Serra, a Gianni Mura. Per non parlare dell’inarrivabile Saramago. Nel mio infinito piccolo, ci sono cascato anch’io.

La vita è un ballo fuori tempo, Andrea Scanzi (Rizzoli, 2015, pp. 306, 18€)

Immagine: Etica-mente di Elena Tubaro

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