La rivolta di Masih e delle altre

In Cinema, Weekend

SAMSUNG CSC

‘Be my voice’ è il documentario che la regista iraniana esule in Svezia Nahid Persson ha dedicato alla storia e alla militanza di Masih Alinejad, attivista e blogger dall’enorme seguito social che vive sotto protezione negli Stati Uniti a causa della sua opposizione al regime e della sua lotta per la libertà delle donne, anche dall’imposizione dello hijab

È una rivolta tutta al femminile quella che racconta in Be my voice (2019, ma solo ora in uscita in Italia) Nahid Persson, regista iraniana esule da 40 anni in Svezia che non ha mancato di documentare in tutti questi anni l’opposizione delle donne al regime degli ayatollah, da Khomeini in avanti, nelle fasi di maggior o minore oscurantismo e riformismo del governo e delle istituzioni, e tra gli alti e i bassi di democrazia in termini sociali, politici e culturali. Più bassi che alti, decisamente, soprattutto nei rapporti di potere e controllo tra i sessi in quel paese dominato, di certo formalmente ma anche sostanzialmente, da un’applicazione più spesso conservatrice, e parziale delle prescrizioni religiose e delle indicazioni del Corano.

Quasi inevitabile quindi l’incontro e la scelta di raccontare la militanza di Masih Alinejad (nella foto in apertura) blogger e giornalista connazionale, espulsa dal parlamento per le domande troppo impertinenti ai politici, e nota negli ultimi anni per la sua campagna social contro l’uso dell’hijab. Costretta a sua volta all’esilio, vive da anni sotto protezione a Brooklyn, in una casa circondata da un giardino i cui frutti e fiori rigogliosi le ricordano ciascuno una presenza cara che ha lasciato nel suo paese. Accomunate da una sorte comune di fuga e di lotta e dai lunghi capelli ricci, che nel documentario sono valorizzati in senso estetico ma anche polemico, si sono incontrate per girare un instant movie sulla vita della giovane attivista e sugli sviluppi del conflitto politico tra le donne e il regime di Khamenei, che è andato aumentando e si è intrecciato alla ribellione di massa contro l’aumento del prezzo della benzina e alla relativa pesante repressione.

Il film è totalmente in presa diretta, sbalzi emotivi della protagonista compresi, che sembra a tratti recitare ma in realtà è ripresa nella sua vita ‘normale’, nelle sue reazioni alle notizie tragiche che arrivano dalla patria che non ha mai spesso di amare, anche perché la sua famiglia è rimasta lì, e subisce pressioni del regime che la vorrebbe finalmente zitta o almeno inoffensiva. La famiglia si è, dolorosamente per lei, spaccata tra chi apprezza e vuol difendere le sue ragioni, quello spirito battagliero (su tutti l’amato fratello Alì, condannato, a 8 anni di carcere) e chi invece, per paura o convinzione, come la madre, ha accettato l’ostracismo del governo. Che è infastidito, spaventato dalla risonanza internazionale di Masih e dalla sua continua attività di informazione alimentata dalle centinaia di video realizzati con gli smartphone, o dai filmati caricati sul canale youtube Tablet della protagonista, opera di innumerevoli donne scese in piazza o comunque in campo per appoggiare le sue idee, e denunciare la repressione subita da sorelle e fratelli, mariti, madri, padri. Come il fratello della regista che è stato eliminato dal regime.

Tutto è nato in modo piuttosto semplice, anche poetico, da un video, poi diventato virale grazie alla popolarità di Masih, in cui una donna in una manifestazione mostra un velo bianco che vola con lei. Da questa immagine è partita la campagna social “No Hijab” che ha coinvolto iraniane di ogni età, decise a esibire orgogliosamente la loro chioma. In senso di protesta culturale, certamente, di rifiuto di un’imposizione, la più nota nel mondo tra quelle che vengono dal mondo islamico, ma anche come scelta di rivendicare il valore politico di una presenza fisica, quella delle donne, che il regime spesso vuole celare. Così vedere le teste, i bellissimi capelli di tante signore iraniane ha certamente il senso metaforico dell’emergere di un mondo di idee, persone, corpi per secoli soggiogati da un potere spesso abile anche a celarsi dietro la religione.  

Dice Masih: “Togliere il velo o il cappello è essere se stesse”, e una attivista ldi rimando la sprona: “Fai sentire le nostre voci, diventerai la voce di un’intera nazione”.

Non c’è finzione, o un vero canovaccio in questo film premiato nel 2019 al Festival di film d’inchiesta Pordenone docs, salvo il lavoro di impaginazione del film stesso. Solo l’intenzione di raccontare come due attiviste siano riuscite negli anni a usare i media: è anche uno dei non molti esempi recenti in cui al cinema YouTube e altri strumenti digitali assumono un ruolo positivo, di liberazione.

Nahid Persson ha affrontato in vari modi il tema della libertà delle donne in Iran. Ha già girato nel 2009 The Queen and I, con la vedova dell’ultimo Shah di Persia, e nel 2013 My Stolen Revolution, sulla sua fuga dall’Iran dopo la rivoluzione che portò al potere l’Ayatollah Khomeini. E che da principio lei stessa aveva appoggiato. Con oltre sei milioni di follower, Masih è diventata la voce di tante donne che non possono scappare come lei, una sorta di cassa di risonanza per migliaia di iraniane in rivolta con foto, video, racconti, invocazioni. Che spesso pagano al caro prezzo minacce, arresti, torture, persecuzioni, carcerazioni. Grazie al suo accesso ai media internazionali, mostra la costante violazione dei diritti umani e sprona i leader mondiali a non legittimare il suo governo, a non stringere mani di capi politici e religiosi del suo Paese. Tra slanci di entusiasmo (“la telecamera è la loro arma”) e abissi di sconforto (“Sono dieci anni che non vedo la mia famiglia, lo vorrei tanto”). Nel 2014 ha lanciato My Stealthy Freedom, pagina Facebook nella quale invitava le iraniane a liberarsi del velo, filmandosi. E dal 2015 ha un spazio in farsi, Tablet, all’interno di Voice of America, broadcaster pubblico di news che trasmette in 47 lingue. Nel film la loro relazione si rivela subito forte, intensa, a tratti persino ‘esagerata’ nelle forme ma sicuramente vera, reale. Del resto non bisogna mai dimenticare che chiunque sa di essere nell’obiettivo di una qualunque forma di media finisce inevitabilmente per ‘recitare se stesso’ .

L’account Twitter

Nel film si intravede anche il suo libro, pubblicato in italia nel 2020 con il titolo Il vento tra i capelli. Ma il cuore del film è di certo nel montaggio delle immagini girate dai cellulari, veri coprotagonisti, fra le poche testimonianze del presente in un Paese che censura i social e la rete: immagini che costituiscono la memoria di una repressione poco rappresentata all’estero. Che tocca livelli di crudeltà molto alti: parla una delle donne rimaste tristemente note per essere state bruciate con l’acido, lanciato sul suo volto, sugli occhi. E la stessa Masih riceve un video di un barbuto pasdaran che la minaccia: “presto ti bruceremo la faccia con l’acido”.
Tra i suoi interlocutori non mancano anche i/le “dissidenti” dalle sue battaglie. Una signora ossequiosa al potere e agli ayatollah le spiega: “Se indossi l’jihab vuol dire che sei virtuosa e nessuno ti minaccerà”. Ma intanto, più che il dialogo vale la forza bruta. Concitate sequenze mostrano la repressione delle donne dopo le manifestazioni dell’otto marzo. Accanto a Masih vediamo il marito, Kambiz Foroohar, esule e giornalista politico pure lui, una spalla e un sostegno nei momenti di esaltazione come in quelli di disperazione, paura, senso di colpa per le minacce subite da familiari e connazionali. E nelle immagini del film primeggiano l’attivista Raheleh Ahmadi, sostenitrice come lei, fra molti rischi, dei diritti delle donne, ma soprattutto il dissidente Ruhollah Zam, giustiziato con impiccagione nel 2020, nonostante un’abiura pubblica ottenuta dal regime davanti alla tv. Che però non l’ha salvato.

(Visited 1 times, 1 visits today)