La pelle in cui abito: di ogni dolore il corpo ha memoria.

In Letteratura

La storia di un uomo che dalla Costa d’Avorio raggiunge la Puglia. Una storia di lotta, resistenza e dolore, incisa sul corpo che ha vissuto. Tra saggio, memoir e narrazione, la testimonianza di Kader Diabete (con Giancarlo Visitilli) sul senso di un’idea più che mai necessaria: cambiare il mondo.

La pelle in cui abito, scritto da Kader Diabate insieme a Giancarlo Visitilli, non è né un romanzo né un saggio, ma un oggetto letterario che si situa più o meno a metà. Diabate, infatti, racconta la sua storia, senza fronzoli letterari, che l’ha portato dalla Costa d’Avorio fino alla Puglia.

Uno dei passaggi del libro afferma che “in fondo la pelle, per ogni uomo, è come una carta di identità: ha i segni dei tagli, dei graffi, delle vaccinazioni, delle botte e di quello che altri umani possono infliggere nelle carni altrui“. Partendo da questa frase, vale la pena fare tre considerazioni su La pelle in cui abito, pubblicato da Laterza: una di ordine letterario, una di ordine diciamo politico, e una, infine, di attualità.

PRIMA CONSIDERAZIONE, QUELLA LETTERARIA

Se La pelle in cui abito è un racconto che di fantasia e di fantastico ha ben poco, Binti è l’opposto. Binti è una trilogia di fantascienza scritta dall’autrice afro-americana Nnedi Okorafor. Binti è una ragazzina di etnia Himba, che, grazie alle sue sorprendenti capacità matematiche, viene selezionata per frequentare la prestigiosissima università interstellare Oomza (sia detto en passant che la fantascienza di Okarafor è fanta più per scena, che per fatto). Durante il suo viaggio verso l’università, a bordo di una specie di balena-nave intergalattica, Binti e l’intero equipaggio vengono assaliti dauna razza extra-terrestre dalle sembianze a forma di medusa. Ora, senza stare qua a bombardarvi di informazioni fini a se stesse, quello su cui mi interessa porre l’attenzione è come sia Diabate che Okorafor leghino profondamente identità culturale e identità fisica.

Centrali nel racconto di Binti sono i suoi capelli. È su di essi che viene calamitata l’attenzione non soltanto degli estranei – che li vedono come qualcosa di esotico e curioso -, ma di Binti stessa e degli himba. Tra gli himba, infatti, c’è un’usanza radicatissima: le donne (non ancora sposate) acconciano i capelli in tantissime treccine, che poi vengono spalmate – come il resto del corpo – con l’otjize, una mistura di burro e ocra. È proprio nell’alterazione dei suoi capelli, nella contaminazione con la cultura aliena delle meduse, che si evidenzia il cambiamento non soltanto culturale, ma proprio identitario di Binti. I capelli che sono come la carta d’identità che diceva Diabate, sia verso le culture altre – in questo caso i ragazzi che Binti incontra nel suo viaggio – sia verso la nostra stessa cultura di appartenenza.

Un simile esempio è raccontato da Diabate quando ci parla dei ragazzi nigeriani che ha incontrato: 

Sul loro volto c’erano delle macchie: ho scoperto solo dopo che erano cicatrici. Ne avevano tre a destra e tre a sinistra della bocca. Solo quando ho assistito al giorno del battesimo di qualcuno di essi ho capito perché gli adulti del Niger avessero il coraggio di tagliare con un coltello la pelle di bambini con solo pochi giorni di vita. Ricordo tanto sangue e qualcuno che, per arrestarlo, metteva della polvere nera sulle ferite. Dopo qualche giorno quei tagli erano diventati cicatrici ben visibili, perché ovunque si incontrassero, loro, gli abitanti di quel popolo, non ci fosse bisogno di presentarsi e tutti si riconoscessero“.

La scelta stessa – compiuta insieme a Giancarlo Visitilli – di suddividere il libro in capitoli che hanno come punto di riferimento parti del corpo (lingua, mani, naso, stomaco, e così via), richiama proprio l’idea che mente, anima e corpo coincidano e siano inseparabili.

Ora, generalizzare non avrebbe senso e parlare di caratteristiche di letteratura africana sarebbe errato sia perché si sono presi in esame in modo totalmente arbitrario unicamente due testi, sia perché suggerire che la letteratura africana possa avere caratteristiche comuni, sia se si sta parlando di un’autrice di origine nigeriane come Okarofor e di un autore ivoriano come Diabate, trattandola come un unicum indistinto sarebbe ricadere nel solito sguardo eurocentrico mai passato di moda.
Quello che però vorrei suggerire è che Okarofor e Diabate, con tutta la differenza del loro sguardo, mostrano una sensibilità estremamente diversa rispetto a quella europea rispetto al rapporto fra mente, corpo e anima. Quello europeo è infatti uno sguardo figlio del dualismo cartesiano per cui, detto barbaramente, mente e corpo sono separati e la vera indentità sta nella mente, tanto che ormai possiamo pure dibattere di quando scaricheremo la nostra coscienza, la nostra mente e quindi la nostra identità su dei server. Allora, la concezione per cui l’identità non è solamente la nostra mente, bensì mente e corpo in modo indissolubile, non è soltanto benvenuta, ma necessaria. Proprio come la Maga di Cortazar che riteneva che “la forma delle mani era presente in ciò che il padrone poteva sentire nei confronti del Ghirlandaio o di Dostoevskij“.

SECONDA CONSIDERAZIONE, QUELLA POLITICA

Diabete, proprio come Binti, non è un migrante economico. Diabete, infatti, lascia la Costa d’Avorio perché vuole cambiarla. Attivista fin da quando ha tredici anni, Diabete sta lottando affinché le tradizioni patriarcali e fondamentaliste vengano accantonate e superate. In particolare, la scintilla che dà vita al tutto è stata il matrimonio di una sua compagna di classe, Assetou, ad appena tredici anni, con un uomo di una trentina. Assetou dovrà abbandonare gli studi e la sua vita precedente.
Kadel le promette che non accadrà:

Quelle parole furono la promessa, la roccia su cui ho costruito la casa in cui abito e preparo il necessario per affrontare ciò che è fuori da essa ma mi riguarda“.

Il ragazzo inizia, così, a organizzare delle forme di protesta, perché sa che dal particolare, Assetou, si arriva al generale: “La mattina successiva ho radunato tutti i miei compagni di classe. Ricordo solo di aver detto loro che quello che tocca oggi a uno di noi, il giorno dopo sarebbe potuto toccare ad altri. Urlai che ci saremmo alzati tutti, maschi e femmine, per cambiare quello che accadeva nel nostro paese“. Le proteste si diffondono, Kadel viene perfino arrestato, ma non smette, non si arrende. Però, man mano che va avanti, diviene lampante quanto siano monolitiche le tradizioni. Peggio: quanto sia pervicace il sistema. Kadel, infatti, deve andarsene dalla città quando è egli stesso costretto a sposarsi dalla sua famiglia.

Kadel Diabate, quindi, si inserisce all’interno di quel gruppo di ragazzi che sta cercando attivamente e tenacemente di cambiare il mondo in cui vivono, in cui viviamo, anzi. Penso a Greta Thunberg, Malala Yousafzai, Emma Gonzalez. Sotto questo aspetto, allora, è interessante notare come sia centrale l’intersezionalità di queste lotte. Kimberlé Crenshaw utilizza l’intersezionalità come metafora “per chiarire i modi in cui forme di discriminazione distinte a volte si intrecciano e creano ostacoli che spesso non vengono compresi se confinati nella discriminazione razziale o di genere“. Quella di Diabate è una la lotta verso un’uguaglianza di genere, poiché – per usare i suoi termini cristallini – “c’è la libertà di scegliere il proprio compagno. E insieme alla scelta deve esserci amore fra i due. Niente di combinato, di voluto, di scelto da altri. Per secoli abbiamo fin troppo obbedito a quello che altri hanno voluto per noi neri“, ma che passa necessariamente verso un processo di decostruzione completa del sistema tradizionale (e patriarcale) vigente.

La pelle di Diabate (ma anche di Thunberg Yousafzai, Gonzalez) ci mostra appunto come questi processi di lotta e di opposizione debbano basarsi sull’intersezionalità, e di come per essere efficaci debbano coinvolgere la società nella totalità della sua interconnessione.

TERZA CONSIDERAZIONE, QUELLA DI ATTUALITÀ

L’ultima considerazione è sulle pagine che Diabate dedica a raccontare il suo viaggio, dalla Costa d’Avorio all’Italia. Non voglio riassumerlo: sarebbe sminuirne la potenza e la schiettezza con cui ci mette davanti all’orrore, dal deserto alle prigioni libiche.

Perché la pelle dell’altro non è soltanto la sua carta d’identità, ma anche la nostra.