La Hybris di Antonio Rezza, burattinaio e sovrano

In Teatro

RezzaMastrella portano in scena otto attori e un compendio simbolico del loro teatro, restando “sulla soglia”.

La traduzione di scuola di Hybris, soprattutto per chi non venga da studi classici (ma non soltanto) è ormai genericamente accettata come “tracotanza”.

È in realtà, qualcosa di più, ed ha a che fare con la propria percezione di sé in rapporto – paritetico, quantomeno – con il divino nello specifico e con il sovraumano, l’oltre umano comunque inteso, in generale. Così definisce il termine la la Treccani: “nella cultura greca antica è anche personificazione della prevaricazione dell’uomo contro il volere divino: è l’orgoglio che, derivato dalla propria potenza o fortuna, si manifesta con un atteggiamento di ostinata sopravvalutazione delle proprie forze”.

Se si parte da qui, preferendo al concetto di sopravvalutazione rispetto al proprio valore quello di – altrettanto ostinata e rigorosa – consapevolezza, si capisce come l’ultimo lavoro di RezzaMastrella, in scena fino al 27 novembre al Teatro Elfo Puccini, non avrebbe potuto intitolarsi diversamente. Ma vale forse per l’intera produzione di Antonio Rezza, anima e deus (non solo ex machina) di tutti i suoi lavori. Gli è, persino, consustanziale.

Il performer (volendo includere nella definizione tutte le possibili declinazioni di suono, corpo e voce che sperimenta e porta in scena) romano è perfettamente consapevole dei suoi mezzi, della sagacia (in molti dicono genio) e libertà di cui intesse i suoi lavori, dentro le trame costruite per lui da Flavia Mastrella. È lui che tiene i fili, è lui che conduce il gioco, lui che lo plasma e lo causa. Semina porzioni di comprensione possibile ma se qualcuno dalla platea prova goffamente ad entrarci dentro, a rispondere alla sollecitazione, a luci già accese non c’è più spazio per raccoglierla.

Se c’è qualcosa di impossibile è fruire dei suoi lavori in modo passivo, senza l’impegno se non a comprendere, a lasciarsi condurre, ma se è vero che, per Rezza, il pubblico è sempre parte di un discorso, lo è – soprattutto in questo ultimo lavoro, e meno che altrove – come oggetto di una provocazione (si è scritto, di una necessaria molestia, specchio dei nostri lati più scomodi) da prendere per quella che è. Con tutto il suo carico di ironia, sfida e disorientamento.

Lo è per lo spettatore ma lo è nella stessa misura per i compagni di scena, otto, mai così tanti raddoppiati rispetto al lavoro precedente. Ai sodali storici Ivan Bellavista e Manolo Muoio, si aggiungono qui Chiara Perrini, Enzo Di Norscia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli e Maria Grazia Sughi: tutti essenziali al burattinaio Rezza, e al contempo funzionali a fare da sparring partner del fuoco di fila di parole, gesti, imposizioni attraverso cui Rezza li muove.

Ciascuno di loro, che pure mantiene – attraverso la forma diretta del nome, o in una parodica – un frammento di identità, diviene per Rezza una funzione. Un’idea di parentela (la madre, la fidanzata, la sorella, il padre) da rovesciare e disgregare, in una girandola impazzita di affermazioni di sé (del resto cos’altro si fa quando ci si presenta a vicenda?) che a furia di ripetersi e aggrovigliarsi si svuotano di senso.

Funziona per eccellenza e parziale eccezione il solo Bellavia, nei panni di un rigido uomo grigio a personificare l’altro per definizione. Chi non sta al gioco del burattinaio non è degno di costruire un dentro. È su questa acuta suggestione, una volta tanto chiaramente leggibile, che si regge l’intero lavoro: Cosa è dentro, cosa fuori? Definito un confine, la realtà vi si plasma intorno. Anche – e forse soprattutto se, come in questo caso – è mobile, la soglia definisce i vuoti e i pieni, le somiglianze e le differenze, un noi e un loro mai uguale a se stesso. Un bisogno di conoscersi – e ancora, identificarsi – destinato a venire però invariabilmente meno, fino al ridicolo. E forse hybris sarebbe, allora, pensare di dare valore a quella soglia? O di eliderla? O entrambe le cose insieme?


Di certo il teatro, quello di Rezza in particolare, dà la possibilità di giocarci, di tracciarla e cancellarla a proprio esclusivo piacimento. Dentro allo spazio del gioco, c’è quindi la violenza del potere e dell’unilateralità delle decisioni. Nel luogo simbolico designato da Mastrella, riempito quasi esclusivamente dalla porta che lo definisce e dalle luci di Daria Grispino, sta il concetto di apertura e chiusura, come lo abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni, ma anche molto al di là.

C’è un vuoto che si deforma e un pieno da costruire con strumenti per lo più impalpabili. Quelli contenuti nella “cassetta degli attrezzi” usuale di Rezza. C’è il suono, il ritmo (anche quello prodotto dalla porta) incalzante e poi forsennato, ci sono i corpi, la loro libertà di essere e mostrarsi e il contrario, la costrizione della violenza ossessiva. Ci sono frammenti di intuizioni che perdono di organicità rispetto ad altri lavori per somigliare piuttosto a pietre di fiume passate al setaccio del cercatore.

E se la pagliuzza d’oro emerge soprattutto in alcuni fulminanti epigrammi – “La vita è l’eutanasia dei poveri: si muore lo stesso senza bisogno di andare in Svizzera” e da citazioni letterarie prese a prestito da Ermanno Cavazzoni –  le altre sono gioco, associazioni salaci di idee, disgregazioni, ancora una volta.
Una prova d’artista che pur continuando a somigliare a se stesso che riesce ad colpire anche senza la pretesa di dare a tutto un senso. E anzi, nella apparente programmatica intenzione di rovesciare il concetto di senso.

Foto © Annalisa Gonella

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