Quando il western lo scriveva Puccini

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Si alza il sipario alla Scala con una citazione di Sfida infernale di John Ford, lo si cala dopo circa tre ore con un suggestivo happy End altrettanto cinematografico. È la pucciniana “Fanciulla del West” in versione “Cinerama” di Robert Carsen. Dirige Riccardo Chailly che per l’occasione ha riesumato la partitura originale mai eseguita prima

«I sure like that name, Clementine». È Henry Fonda a Cathy Downs, prima di allontanarsi nell’orizzonte dell’Arizona, con lo schermo che scompare sotto le tende a bouillon, negli anni in cui anche al cinema calava il sipario. Così finisce Sfida infernale, western melò di John Ford. Il pubblico si alza intorpidito dalle poltroncine, si stiracchia, e mima lanci di lazzi e cavalcate, per prolungare l’incantamento della sala buia. Nella testa solo cowboy gonfi di whiskey e rissosi saloon. E anche una donna certo, altrimenti un western non incomincia nemmeno.

Con questa trovata, Robert Carsen dà il via al maggio musicale pucciniano del Teatro alla Scala. E la donna che tutti hanno nel cuore è la girl  Minnie, La fanciulla del West, spedita oltreoceano dalla penna di Giacomo Puccini, che anticipa Ford e Hawks dalla sua casa di Torre del Lago. È il secondo passo dell’integrale pucciniana prevista da Riccardo Chailly, che a maggio dell’anno scorso ha diretto una fragorosa Turandot con la regia à la Metropolis di Nikolaus Lehnhoff.

fanciulla

Ma il cinema è omaggiato anche quest’anno dal regista canadese, con moltissimi richiami che sono più che espliciti. Può farlo grazie a una partitura cinematografica che davvero «fa sentire i tagli delle scene», dice Carsen. Moderna più che d’avanguardia e prismatica come un poema sinfonico, ma commovente come solo un’opera di Puccini può esserlo.

Dopo la scritta The End sullo schermo che chiude il preludio, la luce cambia seguendo tutte le scenette dei minatori, fino all’entrata in stile Calamity Jane di Minnie, ritta sulle ombre dei cowboy, con alle spalle un paesaggio in Cinerama che riprende La conquista del West.

Il secondo atto è in bianco e nero: prima la finestra della capanna di Minnie, poi un piano sequenza in avanti entra in casa (è l’Antonioni di Professione: reporter, ma al contrario: Antonioni il piano sequenza lo faceva dal dentro al fuori). Il dottor Caligari sembra trasferito nel selvaggio West, al centro un tavolo da Febbre dell’oro, una scala espressionista (potrebbe trovarsi in un film di Murnau) e una tempesta metafisica (e qui è Sjöström, Il vento).

Il terzo atto si apre su un fondale alberato su cui proiettare la furia rabbiosa del coro e dello sceriffo quando catturano il bandito Dick Johnson, che in una specie di brechtiana Minor’s opera scampa per un soffio all’impiccagione. E il deus ex machina è proprio Minnie, ormai diva al Lyric Theatre di Broadway, ricostruito in scena per l’addio della protagonista. Così i minatori si metteranno in fila per comprare il biglietto e sperare in un suo sguardo dal palcoscenico.

Geniale coup de théâtre di Carsen, che risolve in questo modo uno degli happy end più malinconici e sfuggenti che ci siano all’opera: quello del saluto della maestrina Minnie ai suoi minatori-scolari. “I love Dick (Johnson)” dice Minnie, senza sapere di citare il romanzo di Chris Kraus. Così niente onorevoli harakiri né l’affetto di un abbraccio tisico in soffitta. Solo una coppia pronta «a una vita di lavoro e d’amore» che si allontana discretamente nel deserto senza nemmeno un duetto conclusivo. Invece di immaginarci Minnie che lava i piatti in casa Johnson, grazie a Carsen è nata una stella.

Razzista e sessista, il libretto di Civinini e Zangarini cola a picco a cinque minuti dall’inizio, non appena i cowboy invocano mamma, nonna e animali domestici come in un Kinderheim nel deserto. La musica invece riempie di bellezza, è carica di impressionismo in orchestra e di teatralità nel canto. Chailly ha voluto rievocare la partitura originale dal limbo delle opere mai eseguite, prima degli interventi che Toscanini fece per il Metropolitan, rimasti poi nell’edizione Ricordi. Purtroppo l’indisposizione di Eva-Maria Westbroek ha impedito di riaprire questi i tagli, con l’eroica sostituta Barbara Haveman che ha iniziato a provare ieri mattina. Per sentire l’inedito duetto tra Minnie e l’indiano Billy Jackrabbit bisognerà aspettare.

Ma in effetti la maggior parte delle quasi mille modifiche apportate da Chailly riguarda cadenze di tradizione, raddoppi in orchestra e soprattutto indicazioni dinamiche: decine di “f” di forte potate o innestate. E ancora, dopo Turandot, Chailly sembra prediligere il continuum sinfonico al palcoscenico: nella sua prospettiva protagonista indiscussa è e deve essere l’orchestra. Così mentre rimane eccezionale il controllo sull’intricato sviluppo musicale, non sempre ritorna l’emozione che ci si aspetterebbe.

Certo la recita di ieri sera non vale del tutto: il direttore era troppo impegnato a seguire la Haveman. Rimane però il fatto curioso che delle tre opere dirette da Chailly nell’ultimo anno, la più curata e raffinata nei dettagli è stata Giovanna d’Arco, forse quella che ne aveva meno bisogno.

Barbara Haveman salva la serata crescendo di atto in atto, dopo un inizio comprensibilmente incerto. La dizione non è perfetta: probabilmente l’avrebbe rifinita di più se avesse saputo di un debutto alla Scala. A lei si deve anche il trionfo del suggeritore, sempre presente ieri sera in una prova da vero virtuoso: il teatro è anche questo.

Convince il Dick Johnson di Roberto Aronica, che rinuncia alla cadenza non filologica dell’aria “Or son sei mesi”, per rifarsi nell’unico pezzo chiuso dell’opera “Ch’ella mi creda”, cantata anche dai soldati italiani durante la Grande Guerra. Perfetto scenicamente Claudio Sgura, soprattutto nelle espressioni da sgherro ingigantite dalle proiezioni. 

Incomprensibili le (poche) contestazioni per Carsen, tra i migliori registi al mondo perché anche le sue trovate più audaci seguono la musica.

La fanciulla del West di Giacomo Puccini, Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano. Dirige Riccardo Chailly, regia di Robert Carsen (repliche 6, 10, 13, 18, 21, 25, 28 maggio

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