“Jurassic World”: a oltre 20 anni dal primo film ispirato a Crichton, un nuovo stanco sequel firmato Colin Trevorrow e prodotto da Spielberg. E non è finita
“Aspetta, lasciami indovinare: i dinosauri Ogm, frutto di un degenerato esperimento umano, sfuggono al controllo dei loro guardiani e invadono l’isola. Gli abitanti, cioè i turisti grandi e piccoli, senza apparente possibilità di fuga, lottano per sopravvivere contro mostri in libertà e complotti di compagnie rivali, imparando infine che l’uomo non può comandare la natura, ma deve sottostare alle sue leggi come e più di ogni altra forma di vita”.
Mamma, ho riperso il dinosauro. Ovvero: come girare quattro film con una storia sola, (valorizzata all’inizio da Steven Spielberg, qui co-produttore) e vivere (quasi) felici. Sì, perché il plot di Jurassic World, questo ennesimo capitolo (il quarto) della saga nata dalle pagine di Michael Crichton, più che un modello è ormai un vero e proprio franchising, da rispettare passo dopo passo. Il primo episodio però, già ventidue anni e non sentirli, aveva dalla sua la forza dirompente della novità, regalò scene che avrebbero fatto la storia del cinema (l’acqua nel bicchiere che trema ai passi del t-rex, il muso del velociraptor dall’oblò della cucina, la maniglia che si gira…) ed effetti speciali già tanto convincenti da vedere oggi negli ultimi sviluppi di CGI quasi un passo indietro sul piano della credibilità.
La credibilità, appunto. A cominciare dalla trama. Chris Pratt, dopo il primo e malriuscito tentativo di comicità avventurosa in I Guardiani della Galassia, ci riprova vestendo i panni di un ex-marine/maschio alfa (a pensare alla sindrome da stress post-traumatico di American Sniper, in effetti un po’ scappa da ridere) che accarezza velociraptor e gira la giungla in motocicletta. Bryce Dallas Howard (The Village, Lady In The Water, Hereafter), bella persino con la frangetta, è una donna in carriera tutta casa e cellulare, ma capace di sparare col fucile e correre nel fango in tacchi a spillo seminando tirannosauri. Insieme formeranno un improbabile team modello Douglas-Turner in All’Inseguimento della pietra verde, per soccorrere i due nipoti di lei, smarriti nella giungla dopo la prematura quanto meritata dipartita della negligente babysitter, e soprattutto in balìa di un nuovo, ferocissimo predatore dai denti aguzzi.
Proprio l’invenzione del nuovo mastodontico antagonista è potenzialmente la trovata più felice del film: incrocio di laboratorio, per nascosti scopi militari, tra le razze più letali dei film precedenti, l’Indominus Rex parte con ottime premesse (capacità mimetiche, acume tattico e la consueta dose di incontrollabile furia omicida), salvo poi sacrificarsi, insieme a ogni parvenza di sceneggiatura, sull’altare della spettacolarità fine a se stessa.
C’è veramente poco altro da dire. Rimasto in cantiere dal 2002, Jurassic World è un parco divertimenti fuori tempo massimo, vittima come i suoi predecessori della perfezione di un primo capitolo che avrebbe dovuto probabilmente restare unico. Non aiuta, d’altro canto, la timida regia del quasi esordiente Colin Trevorrow (alle spalle ha solo il lungometraggio indipendente Safety Not Guaranteed), che regala in effetti alcuni momenti interessanti (chi non vorrebbe un velociraptor domestico per casa?), ma confusi in due ore abbondanti di ammiccamenti, battutine agghiaccianti e sequenze d’azione ripetute, pretestuose e scollegate.
A chi, più di vent’anni fa, aveva assistito rapito al primo miracolo della vita preistorica targato Light&Magic (meritatissimo Oscar agli effetti speciali per Jurassic Park), il finale aperto di quest’ultima, inutile, puntata potrà destare un unico brivido di sano terrore: quello suscitato dalla prospettiva dell’ennesimo sequel di una storia di successo, interrotta e ricominciata ogni volta da capo.