Il rivoluzionario errante continua a camminare

In Teatro

Alle Manifatture Teatrali Milanesi, con la regia di Alberto Oliva vanno in scena (con le parole di Facchinelli prima e Urselli poi) la vita e le sconfitte di Nikolaj Sudzilovskij, don Chisciotte dei nostri tempi, alla smodata caccia della sua utopia.

“Che senso ha se tu solo ti salvi? Desidero salvezza per tutta la terra priva d’amore, per tutta la folla umana del mondo” lo si potrebbe sintetizzare – come fa lui – citando Majakovskij, Nikolaj Sudzilovskij, protagonista di Il rivoluzionario errante, alla Cavallerizza del Teatro Litta. Ma non si potrebbe, così facendo, pensare di esaurirlo. Non lo fa, del resto, neanche il sottotitolo, che ne cita “vite, utopie e fallimenti”, ma neppure il suo stesso nome. Quello che per la Grande Madre Russia di metà Ottocento è il sovversivo Nikolaj Konstantinovic, in Europa sarà il dottor Russell, e alle Hawaii perfino il Presidente Kaukalukini (che sta per medico russo) quando riuscirà ad essere persino il primo (il solo?) presidente marxista dello stato insulare, prima che i nativi inizino a diffidare dello straniero che voleva porsi a paladino dei loro diritti. Per se stesso, nell’isola felice di Mindanao al termine della sua vita, sarà Lumpatius Vagabundus, straccione vagabondo. E prima, e durante, molte altre cose: medico, utopista, ribelle, scienziato, sognatore, attivista, politico.  Dovendo scegliere una dizione sola, però, forse sceglierebbe rivoluzionario: perché “è di questo che si parla quando si parla di rivoluzione e scienza: scindere la massa in uomini”. Sapere che per aver cura del mondo occorre aver cura di ognuna delle particelle che compongono il cosmo, come il corpo, e che “il benessere collettivo dipende dalla quantità di benessere di ciascuna delle sue parti”, così come la qualità di una società dipende da come trattano gli eccentrici, gli utopisti, i fuori norma. Rivestito degli ideali marxisti, quello di Sudzilovskij è, a ben guardare, un sogno concretissimo di cura per tutti: “se la cura è un diritto umano, non ci resta che curare tutti, altrimenti è un banale lavoro di riparazione guasti”. “I diritti sono di tutti, altrimenti si chiamano privilegi”, l’avrebbe sintetizzata Gino Strada circa un secolo dopo. L’obiettivo di una clinica mobile per tutti guida la sarabanda di luoghi e identità che segnano una vita difficile anche solo da inseguire, del resto il “dottor Russell”, odiato da tutti con la stessa violenza con cui sarà idolatrato, prima dai kanaka hawaiani (prima che la colonizzazione americana li trasformi da uomini a macchine calcolatrici) e poi dai russi che pretenderanno di celebrarne il contributo al bolscevismo a patto che si pieghi a tornare in una patria che non sente più sua. A puntellare i dati essenziali ci pensa un pappagallo antropomorfo in cappa scura, che nell’impossibilità di definirlo davvero opta per un grammelot pseudorusso e litiga fino a capire che è restituirlo davvero è, nei fatti, impresa destinata al fallimento. Gli si può solo fare eco, impersonando come Angelo Tronca il pappagallo che è la storia, quando “ripete, ma insegna molto poco”. Rimangono piume colorate e un gracchiare invadente e disturbante, attraverso cui però Sudzilovskij dialoga con la sua coscienza, e ricordando di esistere tiene vivo il sogno anche quando lo afferrano gli incubi angosciosi di quando il potere si trasforma in sete di dominio, del ritorno di una altrettanto fitta teoria di fallimenti, e di vocazioni alla perdita.
Mentre si guarda indietro, dal paradiso (tropicale?) di un non luogo in cui lo avvolge la memoria coloniale di una poltrona di vimini e di un completo di lino chiaro il rivoluzionario errante ha il volto di Mario Sala, estremamente espressivo, che traduce la sua esaltazione ideale in un eccitamento sempre sopra le righe, nel grido continuo di chi non si riconosce nella realtà in cui è costretto ad abitare e di episodi di quiete, come la pensione rivoluzionaria di Madre Russia, vuol fare lo strumento di nuovi possibili sogni, disinnescando dall’interno il dispositivo del potere, come i rivoluzionari fanno a qualsiasi latitudine.
In una ricchezza così debordante di stimoli, la regia di Alberto Oliva tiene insieme la vicenda del chimico, esploratore e idealista Sudzilovskij, liberamente ispirata al libro di Claudio Facchinelli e poggiata sulla scrittura concitata di Tommaso Urselli, prediligendo l’empatia alla cronologia, consegnando un esempio curioso e stimolante a giovani sempre più depredati di sogni, afferrati da una vecchiaia delle menti a cui l’estrosità senza posa del medico russo fa da impegnativo – e al contempo divertente e coraggioso – contraltare.

Del resto, quelle di Sudzilovskij non sono utopie, ma “topie”, cammini da percorrere, progetti da realizzare, senza mai fermarsi. E continuare, verso la luce di un mondo più giusto, come in teatro, fuori dal palcoscenico, un anno esatto dopo la strage di Steccato di Cutro, correndo ancora verso quelle voci di bambini che hanno bisogno di noi.

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