Il kosovaro Petrir Halilaj è uno degli artisti più interessanti in circolazione. All’Hangar Bicocca è in scena la sua vita, segnata dalla guerra.
Pirelli Hangar Bicocca, grande tempio dell’arte contemporanea a Milano, si riconferma contenitore privilegiato di mostre che prima ancora di esporre delle opere (e si noti: mai tradizionalmente appese ad una parete) risultano, alla percezione del fruitore, opere d’arte ambientali esse stesse. Space Shuttle in the Garden è la prima personale italiana di Petrit Halilaj che, diplomatosi a Brera nel 2008, può già vantare a 28 anni la carriera di un artista maturo. Degna di menzione è la doppia partecipazione alla 6° Biennale di Berlino e alla 55° Biennale di Venezia (Padiglione Repubblica del Kosovo); fresca di quest’anno è invece la co-curatela, con Hans Ulrich Obrist, della mostra “Thirty One” alla National Gallery of Kosovo.
Quel che fa di Halilaj un artista di rilievo internazionale è la precoce e intima riflessione sul rapporto fra arte e vita. L’artista trascorre infatti la propria infanzia durante la Guerra del Kosovo (1996-1999, cruciale per l’indipendenza dalla Serbia), che portò alla morte di 13.000 civili, allo stupro di migliaia di donne e alla distruzione di istituzioni, scuole e abitazioni private, con conseguenze che ancora pesano sull’economia e sugli equilibri sociali del Paese. Proprio attorno alla casa dell’artista si articola la sua poetica: entrando nel capannone di Hangar Bicocca vediamo gli originali casseri utilizzati per la costruzione della nuova abitazione di famiglia dell’artista a Pristina, ovvero strutture lignee di supporto per la colata di calcestruzzo che forma le fondamenta e le mura degli edifici. Questi imponenti scheletri edilizi, felicemente integrati all’architettura dello stesso Hangar Bicocca, mettono in crisi il rapporto fra contenitore e contenuto, pieno e vuoto, socialità e solitudine, perché ricalcando planimetria e alzato dell’abitazione all’interno di uno spazio chiuso offrono a un tempo la reinterpretazione della casa stessa in base alla vivibilità propria degli specifici ambienti: soggiorno e cucina sono uniti, in qualità di spazi comunitari, mentre le camere da letto sono isolate.
La famiglia ebbe la necessità di trasferirsi nella capitale in seguito alla distruzione, causata dalla guerra, della casa più antica a Kostërrc. Qui Halilaj torna alla ricerca delle radici della propria identità e per recuperare il possibile, fra cui i gioielli che la madre in fuga aveva seppellito nel terreno assieme ai disegni infantili del figlio. Questi ultimi, presenti in mostra, si accompagnano a riproduzioni ingrandite di cento volte dei monili materni, divenuti sculture metalliche impreziosite dalle macerie dell’abitazione (carbone delle travi, terra bruciata, residui di tegole, calcinacci), quindi positivi amuleti della memoria in grado di esorcizzare — con l’ironia — le energie distruttrici e disgreganti del conflitto bellico. Ai gioielli materni fanno coro ventisei riproduzioni di oggetti d’uso comune (bastoni da passeggio, calzature, cornici), originalmente realizzati dal nonno dell’artista, disposte sotto teca e illuminate da una luce al neon secondo un gusto di cristallizzazione museale dei reperti del passato, contraddetto però dall’esile struttura di rami e terra che regge la teca stessa.
Il binomio memoria-oblio non è articolato in maniera esclusivamente personale e privata, ma si intreccia con la dimensione collettiva in chiave trans-storica. L’artista si reca da un artigiano di ocarine allo scopo di riprodurne alcune in argilla; collegate tramite sottili tubi di ottone e rese così suonabili da più persone assieme, queste smettono l’uso individuale per acquisire una dimensione sociale che ridia la consapevolezza del patrimonio culturale condiviso: alcuni di questi strumenti, infatti, furono ritrovati nell’area archeologica di Runik, luogo risalente al Neolitico e presso il quale la stessa famiglia dell’artista ha vissuto (ma rimangono tuttora non esibite nel Museo di Scienze Naturali del Paese). A rendere ulteriormente visibile la fugacità della memoria e la velocità della sua dispersione serve una lampada da soffitto che, oscillando convulsamente grazie a un motore nascosto, lascia scie di luce che si imprimono, sfumano e svaniscono nella retina dello spettatore, mimando il volo di una farfalla e la scia di polvere d’ali che si perde nell’atmosfera.
Ma se la memoria è a costante rischio e le migrazioni aggravano questa condizione (l’artista si è spostato dal Kosovo in Italia e poi in Germania), è anche vero che si può guardare a ciò che non c’è più e ai luoghi di approdo in modo positivo, come a un nuovo principio. Il razzo spaziale che dà il titolo alla mostra è costruito — ancora — con le assi di legno della casa di famiglia, dipinte stavolta al loro interno di Blue Klein, cioè il colore dell’infinito e dello spazio celeste. Ad abitarlo sono delle galline (e si sa: non sono animali veramente in grado di volare) che, libere di mescolarsi agli spettatori, sono la metafora di un conglomerato sociale in miniatura che desidera un altrove ricco di possibili e inattesi sviluppi.
Purtroppo la sincera poesia di vita di Halilaj ha un grosso limite: le opere, da sole, non riescono a raccontarla. Le ricostruzioni e rielaborazioni mnemoniche che l’artista propone, tramite procedimenti analogici fra i materiali utilizzati e le forme nuove che questi assumono nelle opere, presuppongono una precisa conoscenza della sua intimità familiare e della storia recente del Kosovo che, spesso, taglia fuori il fruitore: al suo sguardo il complesso dell’esposizione sembra una rielaborazione sui generis, ma paradossalmente più asettica, di passate operazioni di Land Art e Arte Povera, senza che venga attivata la fantasia e la commozione. Tranne, forse, in un caso: il video in cui l’artista indaga freneticamente, con affanno del respiro e fingendosi curioso insetto, il luogo dell’abitazione distrutta; e vi trova, stando dal tramonto all’alba, il ciclo della natura. Che è tutta un frinire di cicale, farfalle che si posano, vermicelli che camminano sulle travi rimaste, al soffio del vento.
Immagine di copertina: Petrit Halilaj, They are Lucky to be Bourgeois Hens II, 2009. Courtesy the Artist and Pirelli HangarBicocca. Photo: Agostino Osio