Viene dalla Croisette “Due fratelli” di Leonore Serraille, regista francese premiata a Cannes nel 2017 per “Montparnasse”. Al centro del racconto c’è qui la famiglia di Rose, emigrata dalla Costa d’Avorio a Parigi con due bambini, e i suoi primi 30 anni burrascosi vissuti in Francia. Tra amori falliti, sogni di riscatto e speranze in un futuro felice per i ragazzi. Ma come dice alla fine il piccolo dei due, diventato professore di filosofia, “non si vive mai, si spera di vivere”. Firmato Blaise Pascal, perfetto per loro
Il cinema francese, accanto all’opera omnia di Ken Loach, è rimasto l’unico a raccontare i disagi del reale, guardando in faccia i così detti “umiliati e offesi”, ma senza far mai della retorica, senza virgolette né proclami, lasciando la scia di un giudizio alle nostre sensibilità: donne che non ce la fanno a lavorare e crescere i figli, che patiscono gli orari, che puliscono le cabine dei ferry boat: tutte hanno difficoltà
a tenere insieme la famiglia. La regista, in questo caso, è Léonor Serraille (Camèra d’or a Cannes nel 2017 con Montparnasse- femminile singolare) che nel suo secondo Due fratelli, anch’esso applaudito alla Croisette, guarda in faccia per trent’anni, senza mai abbassare lo sguardo neanche nei momenti più moralmente difficili, la storia intrecciata e nervosa di una famiglia emigrata dalla Costa d’Avorio nei ben noti sobborghi di Parigi, la banlieu multirazziale nella periferia della grande città.
In cuor suo Rose, la madre, spera di ricomporre in qualche modo la famiglia originale, cominciando come sempre dalle pulizie in un albergo. Una donna coraggiosa e pronta a tutto, romantica e lavoratrice, con due figli dinamici al seguito, Ernest, che è la voce narrante della storia, e Jean (nel titolo originale ne rimane uno, Un petit frère). Viene in mente Rocco e i suoi fratelli di Visconti, dove l’immigrazione era solo interna, ma qui ci sono due ragazzi ancora molto piccoli che crescono a zig zag, inseguendo anche le non sempre felici intuizioni di Rose, che lasciando una famiglia amica li porta a Rouen, sperando nel futuro di un uomo che si dimostrerà inaffidabile. Ma soprattutto dei due figli (Stèphane Bak e Kenzo Sambin da ragazzi), che crescono poco alla volta scontrandosi con piccole e grandi disavventure, mutando carattere, livelli emozionali, pulsioni. E differenziandosi molto, a un certo punto scambiandosi il gioco delle parti, non sempre indolore.
Ma lasciamo i particolari al piacere di chi vedrà questo film sensibile e attuale, contemporaneo ma anche eterno, arrabbiato ma non senza speranza, perché poi qualcosa accade e muta dentro le storie personali di ciascuno. C’è una bellissima scena finale, che contiene tutto il senso del racconto, l’incontro di Ernest, diventato grande e supplente d’una cattedra di filosofia, con la madre che non vede da tempo, naturalmente invecchiata e che gli porta una lettera dalla patria africana del fratello maggiore. Il tempo passato e futuro scorre in quel tavolino del bar, probabile che sia un ultimo appuntamento o quasi, dove il presente è un soffio, anche per la bravura di Annabelle Lengronne e Ahmed Sylla nel ruolo del figlio adulto.
E’ lui, il fratellino, che sceglie la via più intelligente all’integrazione, quella culturale, e legge ai suoi ragazzi una frase di Pascal che naturalmente indossa volentieri: “Non si vive mai, si spera di vivere”. Pascal o no, è l’apparenza che inganna e i flic comunque lo fermano, uscito solo un attimo di casa senza documenti. Gli esami non finiscono mai.
Due fratelli, di Leonor Serraille, con Annabelle Lengronne, Ahmed Sylla, Stèphane Bak, Kenzo Sambin, Thibaud Evrart, Jeanne-Christophe Folly