Se non ti va, fammi un fischio

In Interviste, Teatro

L’educazione teatrale del pubblico: quanto, come e perché è lecito oggi dissentire? Ce ne parlano Andrée Ruth Shammah, Ferdinando Bruni, Rosario Lisma

Ormai capita di “incontrarli” a cadenze quasi miracolose, se non invisibili, come fossero lucciole o aliti di ponentino. Quello dei cosiddetti “fischi”, nel teatro di prosa, è appannaggio quasi esclusivo (e invero non sempre gradito) dei Festival del cinema che contano, e del teatro lirico.

Quest’ultimo, rinfuocato dalle animate filofo-ideologie dei loggionisti, segue una vera e propria prossemica del «buu»; e il teatro di prosa, invece? Si fischia ancora? Generalmente no.

Trenta, quaranta e forse più anni fa fischiare era un atto politico, un’indicizzazione precisa e furente che si legava a contesti storico-socio-politici di fattezza definita. Oggi, manco a dirlo, i tempi sono cambiati e il fischio non esprime più il dissenso, ma una sorta di santino alla maleducazione. Oppure no? Ne abbiamo discusso con Ferdinando Bruni, guida artistica e spirituale (insieme a Elio de Capitani) del Teatro dell’Elfo, con Andrée Ruth Shammah, direttrice e fondatrice storica del Teatro Franco Parenti, e con un attore, regista e drammaturgo di successo come Rosario Lisma, autore di Peperoni difficili, agrodolce commedia d’ispirazione eduardiana che ha letteralmente conquistato Milano.

Nei teatri lirici si fischia di più, dico a Ferdinando Bruni. «È vero – risponde – ma è anche innegabile che nel teatro lirico resistano delle componenti oggettive rispetto a quello di prosa. È più facile intuire che un attore di lirica non riesca a fare quello per cui viene pagato: se stecca, si capisce facilmente. Lo stesso vale per le regie: alla Scala vengono fischiate praticamente tutte, tranne quelle super-tradizionali». Ovvero? «Il pubblico rifiuta, per quanto riguarda la lirica, uno stile registico di derivazione “nordica” che non appartiene alla nostra tradizione.»

Torniamo alla prosa, però. «È tutto più elastico. Da quando esiste il teatro di regia anche il pubblico più retrivo capisce che, in merito a un testo, non si può più dare una lettura unica. L’ultimo spettacolo per cui si sono manifestate delle reazioni vivaci è stato l’Arlecchino di Antonio Latella.» Creative conflict con la storica versione del Piccolo? «Certo. È un classico, e in più a Milano tutti avevano sotto gli occhi il modello del Piccolo. Ad alcuni non è parso vero di non rivedere la messinscena con Soleri, ad altri l’idea della rilettura di Latella non è piaciuta per niente. Reazioni che più o meno, in passato, avevano già “attraversato” le sue riletture del Tram che si chiama desiderio e di Natale in casa Cupiello. Ricordo un episodio vistoso: il primo anno in cui è stata fondata la scuola del Piccolo Teatro, per esempio, un gruppo di allievi è venuto a vedere una versione del Sogno di De Capitani, particolarmente dark. Si sono presentati in sala con attitudine politica: i classici non si fanno così. Erano i primi anni Novanta, poi alcuni di loro avrebbero lavorato anche con noi…»

E se dovessero fischiarla, un giorno? «Lo accetto, anche se avere una platea che mi fischia contro è quasi un incubo (ride).»

«È un’usanza ormai tramontata, in teatro – continua – anche perché tanti anni fa il teatro era uno solo. C’era un modo preciso di recitare e un modo altrettanto preciso di mettere in scena i testi. Oggi il teatro è diventato tantissime altre cose: basti pensare che qualche anno fa sia io (con Rosso, ndr) che Romeo Castellucci (con The four season restaurant) abbiamo messo in scena degli spettacoli ispirati a Rothko, completamente diversi l’uno dall’altro. È innegabile: il teatro si declina con linguaggi nuovi, e il fischio non ne fa più parte. Mi viene quasi spontaneo aggiungere “purtroppo”, però.»

Perché? «Quando succedeva il teatro ricopriva un ruolo più centrale, nella società. Se si andava a fischiare qualcosa, è perché aveva rilevanza nella cultura dell’epoca. A nessuno andrebbe di andare a fischiare uno spettacolo teatrale: oggigiorno è come sparare sulla croce rossa».

Chiediamo ad Andrée Ruth Shammah: fischiare, oggidì, è irreale? E chi fischiava, per quale motivo lo faceva? «Il “fischio”, tanti anni fa, non riguardava mai un solo spettacolo», risponde la direttrice. «Era una battaglia estetica molto forte. Strehler e Parenti, ad esempio, erano dei fischiatori: fischiavano il teatro dei “telefoni bianchi”, il teatro “dell’inutilità”.» A che scopo?, le chiedo. «Lanciavano un messaggio serio: il teatro doveva avere un impegno. Era una presa di posizione politica: i fischiatori non sprecavano fiato per gridare “questo spettacolo è brutto”. Giravano per i teatri con questa intenzione: difficilmente lo faceva l’intero pubblico, ma solo una parte selezionata.» Un po’ come avviene con i loggionisti alla Scala, insomma. «Esatto. Loro seguono delle filosofie precise, e portano avanti la loro battaglia.»

«Il fischio viene interpretato come fosse un giudizio negativo dell’opera presa a visione. Non è così: se uno si annoia, esce. Se ne va. Perché dovrebbe fischiare? Se lo fa, vuol dire che è esplosa dell’indignazione. Si può fischiare contro il Living Theatre, che provoca o perché è moralmente indecente, per esempio.»

«Chi in passato ha fischiato sapeva che lo avrebbe fatto; da questo punto di vista, ritengo, sarebbe bello se ci fossero ancora delle battaglie, ma non ci sono più.» Perché? «Non ci sono i giovani che si indignano. Però penso allo stesso tempo che disturbare uno spettacolo non sia esattamente il massimo, ecco. All’epoca i fischiatori non si sedevano nemmeno: era loro abitudine disturbare e basta. Oggi, se lo spettacolo non ti piace, puoi benissimo alzarti e andar via senza “sporcare” l’esperienza vissuta dagli altri», conclude.

I tempi che cambiano sono rievocati anche da Lisma: «Oggi fischiare sembrerebbe più eccessiva e provocatoria, che attiene più all’educazione che altro. Non è un male che nessuno lo faccia più, ma è anche vero che applaudire troppo, come è ormai usanza, non è esattamente l’ideale. Si rischia di impastare tutto, e di non capire quando uno spettacolo piaccia sul serio.»

«Non tornerei al fischio, anche se – da spettatore – mi piacerebbe fischiare. Tante volte, poi, non si apprezza la regia ma elogi con applausi il lavoro degli attori, che non hanno colpe. Oppure non apprezzi il testo e solo la regia: si dovrebbe fischiare, e poi applaudire, fischiare e poi applaudire…» Con la lirica accade. «È un contesto del tutto differente. Lì c’è una tradizione del fischio: è una sentenza, una sorta di Cassazione dei loggionisti.»

«Ecco, non lotto per ripristinare i fischi, ma per raffreddare l’applauso quando uno spettacolo non piace: gli applausi sempre e comunque sono nocivi per il teatro.» E se dovessero fischiare un suo spettacolo? «Mi farei delle domande. Se fischiano in dieci su trecento è un conto, se fischia almeno la metà della sala è un’altra questione. È un tema che si lega a doppio filo alla sovranità del pubblico, che per me è indiscutibile: pubblico tutto, che comprende il critico e lo spettatore che non ha la terza media. E quest’ultimo ha lo stesso valore del primo, se non un pizzico in più: altrimenti il teatro diventa gioco per pochi addetti ai lavori, per chi scrive o per quel regista che abbiamo invitato. Ed è destinato a morire: il pubblico va portato a teatro se gli si propone roba buona. È come andare al ristorante: puoi proporre cibo di alta qualità per tre eletti, ma poi il resto degli spettatori se ne va in pizzeria. E ha ragione».

Giuseppe Paternò di Raddusa

 

Antichi fischi

Rimane solo l’eco dei fischi a teatro, delle storiche serate in cui il pubblico andava in subbuglio anche a sipario aperto, quando il clamore della protesta vinceva sempre sulla noia di reagire.

Quando il pubblico “becca”: uno ridacchia per scherno e tutti gli vanno dietro, è finita. Sono le famose “prime” cult – giuro che non ero presente – in cui anche i capolavori, anzi soprattutto quelli, potevano essere linciati perché incompresi, in anticipo sui tempi: da Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello, alla Piccola città di Wilder ai Parenti terribili di Cocteau (tutti poi risarciti nei secoli) in quel primo dopoguerra in cui Luchino Visconti aizzava le platee borghesi dell’Eliseo, del Nuovo e del Manzoni scoprendo Achard, Cocteau, Sartre, Miller, Williams.

Ed ogni volta era una corrida. “Perché c’erano le fazioni” ricorda il regista Filippo Crivelli, il cui magistrale Ballo Excelsior sta per tornare alla Scala: “Il mio debutto con “Saffo” di Mino Roli con Vivi Gioi e Wanda Osiris fu un fiasco tremendo perché tutti i viscontiani e quelli della Compagnia dei Giovani di De Lullo Valli si erano coalizzati contro di me, colpevole di aver lavorato con un loro nemico, Zeffirelli, partito come aiuto di Luchino….”. Belle cose, entusiasmi, battaglie: meglio dell’accondiscendenza annoiata, del modesto plauso di convenienza.

Oggi è difficile suscitare reazioni negative: personalmente mi ricordo quelle dell’Arialda alla prima e unica recita milanese al Nuovo, addì 23 febbraio 61, con la gente bene che sussultava alle male parole di Testori e davvero ci fu una gran gazzarra alla fine del primo tempo, durante e poi al termine con la Morelli e Stoppa trattati da delinquenti comuni.

Allora a Milano agiva un pool di magistrati che colpivano il meglio dello spettacolo: sequestrava i film e in questo caso (raro, una chicca, ma allora La Mandragola era ancora a rischio censura…) anche un dramma del grande Gianni, l’autore lombardo, allora ancora non redento ma innamorato dei Ponti della Ghisolfa, delle Gilde del Mac Mahon, dei Fabbriconi pubblicati da Feltrinelli.

Latella è forse oggi l’unico che indispone un certo pubblico, che però si limita a disertare, ad abbandonare la sala (è successo a Venezia con il suo Arlecchino) cosicchè gli attori finiscono da soli. I mostri sacri, riconosciuti tali, difficile vengano contestati: due timidissimi buu fecero scalpore alla prima de Le balcon di Genet, un autore non adatto a Strehler, mentre Ronconi ha sempre rischiato forte (La Tragedia del vendicatore), specie con l’opera quando furono spernacchiato, lui e Pizzi, per la ben nota Tetralogia wagneriana iniziata alla Scala e continuata a Firenze.

“L’unica a dirmi che era stato davvero un bel successo, anzi un trionfo” raccontava il regista “era rimasta mia madre”.

Maurizio Porro

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