Della guerra non abbiamo capito niente

In Letteratura

Phil Klay in “Fine missione” raccoglie le esperienze di quindici suoi commilitoni per raccontarci la guerra in Iraq e la sua quotidiana assurdità

Per esprimere un’opinione su Fine Missione di Phil Klay conviene esordire con una banalità piuttosto che rischiare di scriverne di ben peggiori a seguire: non è un libro di cui si possa parlare con facilità. Ad essere sinceri non è neppure stato scritto con l’intento di essere letto con facilità. Sin dalle prime pagine è chiaro di essere lontani anni luce dalla nostra quotidianità. La terminologia e il gergo dell’esercito, nello specifico di quello degli Stati Uniti, scorrono rapidamente senza la dare la possibilità al lettore di afferrare in pieno il senso di ciò che sta accadendo.

Così, sempre più spaesati, ci si ritrova a rivivere le esperienze dei marine che, con diversi incarichi e gradi, sono stati testimoni dei momenti più sanguinosi della permanenza di oltre dieci anni dell’esercito americano in Iraq. Phil Klay ha raccolto le esperienze di quindici suoi commilitoni, incontrati in Iraq, dove ha prestato servizio come marine dal 2007 al 2008, o una volta tornato negli Stati Uniti. Squarciando il velo di acronimi e codici operativi fanno capolino Falluja, Ramadi, Baghdad, nomi di città che hanno avuto l’infelice privilegio di aprire le edizioni dei telegiornali di tutto il mondo.

Anche se da distanze siderali abbiamo vissuto la seconda guerra del Golfo, la caduta di Saddam Hussein, l’apparente transizione democratica dell’Iraq insanguinato dalla guerra civile e dagli attentati. Pensiamo di avere vissuto questi anni e in buona fede di avere il diritto di poter esprimere la nostra opinione su cosa è accaduto e su cosa continua ad accadere in Medio Oriente. Questa convinzione è la prima vittima di Fine Missione.

La verità è che di quella guerra non sappiamo nulla. Non sappiamo nulla perchè non abbiamo gli strumenti per capirla davvero. Il nostro cervello si rifiuta di concepire come razionale il modo in cui i marine che si sono raccontati nel libro decrivono la loro esperienza in Iraq. Dalla guerra ci aspettiamo violenza e orrore, quelli sono aspetti che ormai diamo per scontati e siamo pronti a recepire, a criticare. L’aspetto che lascia spaesati è la sua assurdità, la trafila di situazioni grottesche che prendono forma sotto gli occhi del lettore. Situazioni talmente surreali che finiscono per strappare un sorriso che diventa un ghigno amaro quando ci ricordiamo che la morte è il prezzo di questa farsa. Sarebbe molto comodo etichettare i testimoni di questi eventi come dei folli, degli alienati. Prima di partire anche molti di loro lo avrebbero fatto se gli avessero raccontato delle storie simili. Poi sono arrivati in Iraq e l’assurdo è diventato parte del loro vivere quotidiano.

È una frase fatta, ma non basta vedere la guerra in televisione per capirla. Devi soffrire per colpa di quella guerra, non solo fisicamente. Fine Missione non è stato un libro facile anche da scrivere. Tornare in Iraq con ogni commilitone è stata una scelta dura per Phil Klay e ogni riga porta il peso interiore di quelle quindici volte in cui ha deciso di farlo.

Uno dei marine protagonisti del libro ammette di essere rientrato negli Stati Uniti con una tale rabbia da portarlo a criticare la guerra in Iraq di fronte ai suoi sostenitori e a difenderla furiosamente se interpellato da pacifisti e suoi oppositori. Una scelta inconscia mossa dalla frustrazione di avere di fronte persone che di quello che è successo in Medio Oriente si ostinano a non capire nulla.

 

Phil Klay, Fine missione, Einaudi, 2015, pp. 250, € 19 

Immagine: US-Marines-Iraq

(Visited 1 times, 1 visits today)