Farhadi da Oscar: l’amaro destino di un “Eroe” nell’Iran dominato dal sospetto

In Cinema

Uscito grazie a un permesso dal carcere, Rahim trova una borsa piena di lingotti d’oro. Ma invece di usarli per saldare i suoi vecchi debiti e tornare finalmente libero, la restituisce alla proprietaria. Un esempio di redenzione, ottima per le autorità, da sbandierare sui media? Probabilmente si. Ma le cose non finiranno al meglio, perché il Paese, dominato dalla sindrome kafkiana della colpa e sempre in cerca di un’impossibile verità, condanna tutti al fallimento e alla sconfitta

Rahim (Amir Jadidi), protagonista di Un eroe di Asghar Farhadi, Gran premio speciale della Giuria all’ultimo Festival di Cannes e tra i 15 candidati all’Oscar al miglior film straniero, è finito in carcere per debiti e deve scontare una condanna a tre anni. È uscito in permesso premio per una manciata di giorni e l’idea è quella di utilizzare questo prezioso tempo di libertà per trovare la maniera di scampare definitivamente alla prigione. Il modo più semplice sarebbe quello di ripagare il debito approfittando di un insperato colpo di fortuna, il ritrovamento di una borsa piena di lingotti d’oro. Ma il caso, il destino, la sua innata propensione a comportarsi onestamente, nonostante gli errori del passato, conducono il protagonista in un labirinto dove virtù e colpa sembrano incapaci di trovare un equilibrio stabile, una simmetria efficace e vantaggiosa per tutti. Perché Rahim decide di restituire alla legittima proprietaria l’oro che ha trovato, trasformandosi all’istante in un eroe, grazie in particolare ai dirigenti dell’amministrazione penitenziaria alle prese con qualche recente caso di suicidio in cella, e quindi assai desiderosi di trovare un campione di moralità da dare in pasto a giornali e opinione pubblica.  

Asghar Farhadi, di ritorno in Iran dopo una serie di produzioni internazionali (l’ottimo Il passato accanto al mediocre Tutti lo sanno) dirige un apologo morale sotto forma di film, offrendoci un ritratto drammatico e al tempo stesso sottilmente ironico di una società dominata dalla burocrazia e logorata dal sospetto. Un universo dove l’altruismo viene guardato con diffidenza e la redenzione, ammesso e non concesso che sia ritenuta possibile, è una faccenda pubblica da consumare in diretta tv e sotto l’occhio vigile e totalmente privo di empatia dei social network. E’ la stessa mancanza di empatia che in fondo Farhadi sollecita in noi spettatori, mettendo in scena una parabola infelice con implacabile precisione e assoluto pessimismo. 

Rahim, piccolo uomo vittima delle proprie debolezze oltre che del perbenismo di una società gretta e feroce, non ha scampo, lo sappiamo fin dalla prima scena: lotta e si dibatte, cerca un impossibile riscatto, tenta di far valere le proprie ragioni ma si ritrova con un pugno di mosche in mano. Incapace di prendersi fino in fondo le proprie responsabilità, condannato a navigare a vista in un mondo dove tutti sembrano nutrirsi di piccole e grandi menzogne, si ritrova paradossalmente a essere l’unico da cui tutti pretendono un rispetto assoluto di un’impossibile verità.

Farhadi ha dichiarato di aver voluto rendere omaggio all’età d’oro del cinema italiano, in particolare a un capolavoro come Ladri di biciclette. Come nel film di De Sica, il rapporto tra padre e figlio da un certo punto in poi diventa in effetti centrale nella narrazione e non esente da commozione. Ma lo sguardo di del regista iraniano è inflessibile e non fa sconti, neanche ai più deboli, neppure agli innocenti. La prigione in cui il protagonista alla fine inevitabilmente ritorna – perché non c’è speranza, il riscatto è impossibile, la vita intera è un labirinto senza via d’uscita – diventa così la metafora perfetta di un grande paese sempre sotto scacco, in preda a una sindrome kafkiana che condanna tutti, prigionieri e carcerieri, al fallimento e alla sconfitta.

Un eroe di Asghar Farhadi, con Amir Jadidi, Mohsen Tanabandeh, Fereshteh Sadre Orafaiy, Sahar Goldust, Sarina Farhadi

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