Renziano o sfascista? Expo, bilancio a fine corsa

In Weekend

© Alessandra Lanza

Hanno vissuto Expo lavorandoci: uno critico, l’altra entusiasta. All’inizio. E ora tirano le fila di questi sei mesi

This is the end, finalmente

«Signora, mi scusi, non si può mangiare qui dentro».
«Ah, no, ho visto i tavoli e mi credevo che era il refettorio. Che, c’è la tv? E che ci fate vedere, i cartoni ai bambini? No? Senti, un bagno c’è? E un regalino per i bambini?».
«No, signora, mi spiace. Questo è uno spazio didattico. Però se vuole possiamo far fare a suo figlio una breve  attività di educazione al… ».
«Ah, no. Luigi, vieni via, che qui non c’è niente. Vieni che mamma ti compra il gelato».

Sono in questo posto dal due di maggio, e lo odioL’ho vista crescere, Expo. Ci ho provato, lo giuro.

Ho varcato quella soglia, il primo giorno, pensando: ok, stupiscimi. Ti prego, smentisci almeno una parte dei motivi per cui so che non dovrei essere qui, e in cambio prometto di regalarti un sorriso ogni mattino, da qui alla fine.

L’ho pensato per settimane, e quando mi hanno fatto anche entrare con uno skateboard per arrivare al punto in cui lavoro, costeggiando le vie d’acqua ancora semideserte ho davvero creduto che forse sì, insomma, forse ce l’avrei fatta.

Poi è cominciata davvero. È cominciata, e non si è fermata più.

Sul decumano sempre più affollato ho visto fiorire, metro dopo metro, sponsor e marchi come neanche all’outlet della Serravalle. Ho visto le ultime impalcature lasciare il posto, a m0′ di benvenuto ufficiale, ai padiglioni delle banche e delle catene di abbigliamento, che portarsi a casa le mutande dell’Expo oramai a Milano è una specie di status symbol, e se non ce l’hai sei un black bloc nemico del progresso. Ho visto i Teletubbies e il Gabibbo, e c’era più gente intorno a lui che al padiglione di Save The Children. Ho visto montare, all’ingresso, i banchi del mercato con la frutta di plastica come a Carnevale, e le statue dello scenografo premio Oscar, tipo i guerrieri cinesi di terracotta, ma con l’elmo a ciambella e gli spadoni maccheroni. Ho visto risolvere il problema della fame nel mondo (a proposito, ha funzionato, no?) cucinando la pizza più lunga del mondo, e centinaia di visitatori mica tanto denutriti sgomitare perché farà senz’altro schifo ma è sempre gratis.

Ecco, i visitatori. Ho visto prima le scolaresche e gli stranieri, da maggio a luglio, attirati in massa dalla promessa di contenuti validi e momenti costruttivi alla portata di tutti. Ci siamo consolati a vicenda, ed è stato bello.

Poi è arrivato il visitatore occasionale italiano, quello che “c’è l’Expo, vuoi non andarci?”, ed è un capitolo a parte. L’utente nostrano dell’ultimora, se è donna, sfoggia un paio di scarpe da running nuove fiammanti, comprate apposta perché in Expo cammini e ti fanno male i piedi, e dei leggings ultra aderenti che aiutano la circolazione e conferiscono alle più il gradevole aspetto di una mortadella vestita Decathlon. Se invece di uomo si tratta, la prima cosa che ha fatto la mattina è stata scegliere la maglietta più macho-spiritosa dell’armadio, quella che fa ridere gli amici del calcetto con frasi tipo “Dalla, non è un cantante, è un consiglio”, e la esibisce tutto tronfio sul decumano, a qualsiasi temperatura, pensando a quanti si daranno di gomito trovandolo proprio simpatico. Se è una famiglia intera, infine, hanno tutti il paralume vietnamita in testa. Se poi il figlio è adolescente, poco importa: finisce comunque sul passeggino per provare a saltare le file ai padiglioni.

Ma la parte peggiore sono le discussioni. Sono ovunque e non risparmiano nessuno, proponendo ovviamente, come da italica tradizione, la consueta divisione in due tifoserie distinte ogni qualvolta ci sia qualcosa di cui parlare: Expo sì? Facilone o renziano. Expo no? Sfasciavetrine e prevenuto. Eppure, paradossalmente, sono proprio gli expoentusiasti i più agguerriti, alla rabbiosa ricerca di una rivincita mai offertagli, brandendo i numeri del successo di pubblico come spade infuocate contro l’oscurantismo dei “gufi sinistroidi”. Beati loro, davvero, che questi sei mesi non li scorderanno più. A tutti gli altri, di questo gigantesco parco divertimenti usa e getta resterà poco e nulla, se non il fiatone di chi guidava il Titanic e ha sterzato all’ultimo evitando l’iceberg. Quello, e una gran voglia di voltare pagina e non parlarne più.

Stefano Benedetti

 

This is the end, my Expo friend

 E così siamo giunti alla fine. Possibile che sei mesi siano passati così in fretta? Beh, facciamo che i primi quattro sono volati, che settembre e la prima d’ottobre sono trascorsi a velocità media e che le ultime tre settimane sono state un misto di eternità e relativamente-rapida-successione.

Ho trascorso lì dentro come giornalista metà del mio 2015, con qualche boccata d’aria centro-milanese che mi ha permesso di sopportare meglio la quantità di eventi a tema alimentare e non. «Tu in sei mesi quanti padiglioni hai visto?», mi chiedono. Ci penso e considero che è molto di più il tempo che ho impiegato a scorrazzare su e giù per il sito che a visitarne le attrazioni o a gustare i cibi più svariati, ottenendo un allenamento che mi consentirà probabilmente di partecipare ai prossimi mondiali di marcia.

Ho corso senza sosta tra il Media Center e lo spazio di Slow food, imparando a memoria la collocazione di tutti i Paesi, compresi i cluster e anche il numero 112, dove si trovano i piccoli uffici di Fca e Fs, forse rimasti anche alla fine l’unica isola di tranquillità. Mi sono scapicollata tra l’Albero della vita e l’uscita sud, quella che porta a Expo Village, in qualunque condizione atmosferica, escluse solo la neve e la pioggia di locuste. Ho scoperto vie secondarie e inventato scorciatoie per riuscire ad essere in due posti contemporaneamente e per evitare il fiume di persone delle ultime settimane, ritrovandomi in ogni caso a dover chiedere permesso anche in vie che ad agosto erano completamente desolate. Eppure ho fatto tutto questo divertendomi, forse grazie alla compagnia, perché «mal comune mezzo gaudio», ma se i colleghi sono simpatici anche più di mezzo.

Alla fine della fiera, Expo sì o Expo no? Beh, sebbene sia partita con l’incontenibile entusiasmo dell’inizio, concludo la mia avventura discretamente provata e con le scatole piene quasi fino all’orlo. «Il bello di lavorare in Expo – scrivevo in un pezzo estivo- è che ci si sente in un altro mondo, Milano sembra lontanissima, chi lavora nei padiglioni è particolarmente gentile – ne riparliamo tra un altro paio di mesi – e la solidarietà tra colleghi giornalisti si crea come succederebbe in un villaggio vacanze dove si subisce, tutti insieme, le attività organizzate dall’animazione». Sono stata profetica: come nel miglior villaggio vacanze, a una certa viene valicato il limite della sopportazione e da gentili si diventa insofferenti, da solidali si diventa al massimo compassionevoli e, da complici, inclini a condividere continui lamenti. Poi arriva il collega che «Ci mancherà, vedrai…». Sì, ci mancherà, perché ci dimenticheremo dei quotidiani imprevisti e ci ricorderemo soltanto i bei momenti, ma per adesso il trauma è ancora fresco. Insomma sono partita schifosamente felice e sono arrivata al traguardo solo schifosamente, ho pensato di compilare una lista di pro e contro per capire se sono effettivamente contenta che il 31 ottobre 2015 sia arrivato o se sono solo vittima dell’esasperazione di chi si è goduto la festa fino all’ultimo, ma ha male ai piedi, un po’ di nausea e tanta voglia andare a casa, mentre quelli con cui è in macchina ancora, inspiegabilmente, vogliono restare.

PRO:

  • Aver potuto vedere da vicino e fotografare ogni giorno personaggi che non avrei incrociato andando a far la spesa al supermercato e nemmeno in qualche aeroporto, dal Presidente Mattarella alla regina di Spagna, dal Segretario di Stato degli Usa a quello Generale dell’Onu, da Roberto Baggio e Fabio Cannavaro a Sebastiao Salgado, da Bono degli U2 ad Andrea Bocelli e così via. La teenager che è ancora in me – e non perché me la sia mangiata – ha vissuto questi momenti con discreta eccitazione;
  • Mi sono creata un database sconfinato di fotografie di Beppe Sala che fa cose: Beppe Sala che parla a una vasta platea di persone, Beppe Sala che parla a una modesta platea di persone, Beppe Sala a colloquio con amici e colleghi, Beppe Sala che guarda l’orizzonte come un Cristoforo Colombo a caccia delle Indie, Beppe Sala che ride stringendo la mano a big di vario genere, Beppe Sala che sbadiglia, Beppe Sala che sembra fare l’occhiolino, Beppe Sala che mostra una lattina di Coca Cola con il suo nome stampato sopra, Beppe Sala che procede a passo svelto, Beppe Sala che passeggia con calma, ad libitum. Se dovesse diventare sindaco di Milano potrebbe tornarmi utile;
  • Ho ampliato il mio giro, soprattutto dal punto di vista etnico: ho stretto amicizie con persone provenienti da quasi tutti i continenti. Magari è la volta buona che riesco a fare delle vacanze come si deve!
  • Ho scoperto che la mania per i selfie non è necessariamente qualcosa di cui vergognarsi, o, almeno, è condivisa da un sacco di altra gente che soffre stadi molto più gravi del mio e credo di non aver mai visto così tanti bastoni da selfie tutti nello stesso luogo. (Questo, effettivamente, potrebbe benissimo slittare nella lista dei contro).

CONTRO:

  • Ho sviluppato una sindrome agorafobica che probabilmente aspettava solo Expo per palesarsi, a partire dal viaggio mattutino in metropolitana, passando per l’arrivo ai tornelli, fino al vero e proprio transito all’interno del sito, che mi ha fatto sperare in un Dio vestito da idraulico che facesse un miracolo contro gli ingorghi;
  • Ho visto code che voi umani… E le ho subite tutti i santi giorni: certo, quasi mai le ho dovute fare, a differenza dei visitatori, ma ho dovuto fenderle, attraversarle, scavalcarle, circumnavigarle, fotografarle fino alla nausea. Ho prodotto almeno una dozzina di gallery su persone in fila  o su capannelli statici, in movimento, lineari, a spirale, a zig zag, visti dal basso, visti dall’alto, accanto al leggendario padiglione del Giappone o in attesa per i bagni, perché alle testate online di Repubblica e Corriere paiono interessare molto;
  • Mentre i volontari collezionavano spille e i visitatori timbri sul passaporto, io ho collezionato lividi, da quelli fatti mentre cercavo di risalire il decumano contro corrente e contro i gomiti dei visitatori, a quelli sulle ginocchia per riuscire a scattare una foto, per finire con quelli gentilmente offerti dai bodyguard di quei personaggi di cui sopra, come Francois Hollande e Angela Merkel, che hanno pensato bene di muoversi a piedi durante le loro visite ufficiali.
  • Per colpa del mio pass appeso al collo sono stata scambiata per una colonnina delle informazioni pronta a indicare il bagno più vicino, il padiglione più bello, quello con meno coda, quello in cui regalano le spille  o gli assaggi gratis, la fantomatica tabaccheria, ecc. Tra le domande più gettonate, rivoltemi da coloro cui davo confidenza, «Secondo te lo prolungheranno?», rischiando di provocarmi una crisi di pianto. Eppure ne ho guadagnato una pazienza che, come l’agorafobia, non ero consapevole di avere, e allora questo potrebbe slittare nella lista dei pro, bilanciando quella dei contro. Nemmeno  così ne cavo una risposta. E’ che sono una di quelle a cui piace lamentarsi, per cui con nostalgia ripenserò a quel collega : «Ci mancherà vedrai».

Alessandra Lanza

Foto: © Alessandra Lanza

(Visited 1 times, 1 visits today)