L’Europa Galante al Monteverdi Festival

In Musica

Cremona si riempie di suoni barocchi con il ritorno della rassegna monteverdiana, quest’anno dedicata a “Uomini, eroi, Dei”, dopo il grande successo della scorsa edizione per il 450° anniversario della nascita del grande compositore. Ne parliamo con Fabio Biondi che il 5 maggio con il suo Ensemble apre la manifestazione

Il tema di quest’anno del Monteverdi Festival  (5 maggio-22 giugno) si incarna nella figura di Ulisse, un mito del passato quanto mai attuale, eroe dall’insaziabile sete di conoscenza e simbolo della precarietà dell’esistenza umana di fronte al volere degli dèi e alle forze della natura.

Come ogni anno, si alterneranno nella città alcuni tra i più importanti gruppi di musica antica, a partire da Europa Galante diretta da Fabio Biondi, che – insieme alle due eroine barocche Sonia Prina e Vivica Genaux – inaugura il Festival, alla Chiesa di San Marcellino, sabato 5 maggio, con un programma tutto vivaldiano. Il giorno successivo sarà il momento della voce di Francesca Aspromonte e del meraviglioso violino di Enrico Onofri e del suo Pomo d’oro.

Molti nomi importanti calcheranno i palchi cremonesi, come l’Accademia Bizantina di Ottavio Dantone che il 19 maggio propone un programma dedicato alla Venezia del Sei e Settecento, insieme all’esecuzione di un concerto di paternità sconosciuta ricostruito in stile da Dantone e da lui intitolato Anonimo Veneziano. Con la Cappella Neapolitana e Ian Bostridge (il 25 e 26 maggio), diretti da Antonio Florio, poi ci si fermerà a Napoli per conoscere alcuni capolavori poco noti della scuola partenopea, e il 31 maggio arriva il virtuosismo dei Tallis Scholars, per uno dei concerti più importanti del festival.

Al festival è anche tempo di ritorni: dopo molti anni, riascolteremo l’Arpeggiata con Christina Pluhar, che propone di Monteverdi il Vespro della beata Vergine. Oltre ai grandi nomi del barocco, verrà lasciato spazio a formazioni di giovani, come il Quartetto dei liuti (20 maggio), l’orchestra barocca della Scuola Civica “Claudio Abbado” e gli allievi dell’Istituto Monteverdi.

Con Fabio Biondi abbiamo parlato di passato, di futuro, di musica antica, ma anche dello stato attuale di questo particolare repertorio.

Il concerto che inaugurerà il Festival Monteverdi, è tutto dedicato ad Antonio Vivaldi, un compositore a cui avete dedicato molti sforzi. Come è cambiato il vostro rapporto col “grande veneziano”?
Il cammino dell’interpretazione vivaldiana si è evoluto in relazione alle conoscenze che abbiamo sviluppato nel trascorrere degli anni e che hanno aggiunto, smentito e plasmato il nostro concetto di filologia. Ci ha dato indicazioni, ne ha smentite altre di cui eravamo convinti. La curiosità e l’impegno nel cambiamento rendono molto plastica anche l’interpretazione e la fanno evolvere. Non suoniamo Vivaldi come 25 anni fa, e questo lavoro ci serve anche come scuola di vita e di conoscenza.

Lei ha parlato dell’evoluzione filologica avvenuta negli ultimi anni. Dando uno sguardo al passato, alla grande stagione di riscoperta della musica antica esplosa negli anni Sessanta,  che cosa è cambiato nel rapporto con la prassi esecutiva e con la filologia?
Nel corso degli anni abbiamo attraversato tre fasi importanti: la prima risale al desiderio di riavvicinarsi all’idea primaria del compositore anche per scomporre e mettere da parte un certo modo di suonare alla stessa maniera tutti i generi. Per esempio prima degli anni Sessanta si suonava allo stesso modo sia la musica antica, che quella romantica e post-romantica. Io, che odio i generi e le denominazioni, trovo la parola “musica barocca” un po’ equivoca. Il movimento di riscoperta, nato negli anni Sessanta, è stato il grande moto contrario a una certa uniformità e routine interpretativa. Un movimento anche sociologico, perché il musicista di musica antica era diverso da quello classico, anche per il modo di vestirsi o mangiare. Sarebbe bello scrivere un libro sulla sociologia della musica antica.

Potremmo pensarci…
Poi è arrivata una seconda generazione alla quale io appartengo dato che ho iniziato a fare musica antica nel ‘75-76. Avevamo il vezzo di costruire un’interpretazione per darle un contenuto di autenticità: l’idea era di “far sentire” il Sei o il Settecento come lo eseguivano all’epoca, e quindi creare il fascino della riproduzione dell’antichità.

E la terza?
La terza via, dove siamo coinvolti ora in molti – ed è forse la più intelligente – è quella di perdere definitivamente quest’idea dell’autenticità perché sappiamo che non è riproducibile: il contesto sociale, la maniera di ascoltare e di porgersi di fronte alla musica sono cambiate. Da una parte accettiamo questo cambiamento perché ci rendiamo conto che siamo uomini degli anni Duemila, dall’altra facciamo una scelta linguistica che riteniamo sia un arricchimento di questo repertorio che lo rende molto gradevole (perché vivo) al pubblico e che ci permette di fare un’operazione di restituzione e allo stesso tempo di indagare le radici della nostra cultura. Suoniamo con strumenti d’epoca perché ci piace questo timbro che si adatta bene a questa musica non per esprimere autenticità. La nostra ricerca è un momento di arricchimento e di attenzione ed è molto bello che sia sfociata nel romanticismo e nel pre-romanticismo.

Nella vostra discografia infatti coesistono il repertorio barocco e romantico (o pre-romantico) con strumenti originali.
Parlare di strumenti originali vuol dire fare un’affermazione molto impegnativa però è anche una verità. Oggi viviamo in un mercato molto difficile e lo strumento originale può suscitare interesse. Esso può anche significare interpretazione fatta con altri criteri. Indagare la musica romantica in questo modo non è fatto per guadagnare uno spazio nuovo, ma per avvicinarsi con molto amore a una linguistica, che ha molto da raccontare. Si pensi alla nostra tradizione operistica italiana formata da Donizetti, Bellini e Verdi: è bello avvicinarsi a questa musica non tanto per smentire ma per dare una nuova idea di quel repertorio.

Tra i suoi ultimi impegni, ho notato la direzione de Il corsaro. Quali sorprese regala Verdi?
Mi sono innamorato di Verdi, sin dal Macbeth che ho diretto con Europa Galante, e poi con la bella produzione de Il corsaro. Verdi è il grande genio che ha saputo adeguarsi al cammino del linguaggio senza essere influenzato da Wagner. C’è una quantità di dettagli nelle sue partiture e di attenzione all’orchestrazione che ci mostra quanto Verdi sia “altro” dal zum-pa-pa e dalla musica risorgimentale. Rispetto molto Riccardo Muti perché al giovane Verdi ha dato questo splendore ed è proprio nell’interpretazione che risiede questo atto d’amore. Il Verdi degli anni giovanili rappresenta un aspetto straordinario dell’evolversi di un linguaggio che ha ancora le sue radici nel belcanto.

Parliamo di Europa Galante, che nasce nel 1990. Secondo lei, l’ensemble a che punto si trova della sua evoluzione?
Ho visto nascere e morire tanti gruppi, anche molto interessanti. Per me Europa Galante è una ragione di vita, e, soprattutto, è la spiegazione più straordinaria di come si possa continuare a sopravvivere con entusiasmo e gioia: l’ensemble vive in una situazione di felice condivisione, che dopo vent’anni è un miracolo. La nostra è un’unione di intenti, di stupore. Ho cercato di influenzare i miei musicisti non solo in direzione della curiosità ma anche sollecitandoli a sentirsi sempre a metà di un percorso e non pensare mai di aver compreso tutto.

Una continua ricerca che sia musicale e filologica insieme e che cerchi di restituire la musica di un autore.
Indubbiamente. C’è tanta musica da scoprire.

Quali sono i progetti per il futuro?
Tantissimi. Usciranno le Sonate per violino e chitarra di Paganini in un’esecuzione per la prima volta “storicamente informata” per la quale useremo una bellissima chitarra del 1825. Con l’Orchestra da camera di Stoccarda (ne sono direttore invitato principale) ho registrato un Oratorio di Francesco Feo, autore napoletano straordinario che si conosce poco. Ancora con Europa Galante, sarò al festival di Varsavia, nel prossimo agosto, dove eseguiremo e registreremo Halka, un’opera di Stanisław Moniuszko, il più importante compositore polacco dell’Ottocento. Partiremo a breve per una tournée in Asia (Pechino, Shangai e Seoul) e poi abbiamo in cantiere tantissimi progetti. Un futuro molto bello. Siamo in uno stato di salute buono, che ci anima e ci dà gioia, dato che veniamo da anni di grande crisi, durante i quali molti musicisti sono stati costretti a sparire. Siamo molto contenti di essere sopravvissuti.

E qual è lo stato di salute della musica antica?
Preoccupante. Il mercato ha obbligato molti, per sopravvivere, a una volgarizzazione dell’interpretazione. E questo a volte mi rende molto triste. Si è perduta la purezza iniziale per barattarla con un’idea di immagine e di marketing. Io cerco sempre di evitare questo vezzo finto-estroso, e di non dimenticare che siamo semplicemente attori della musica e soprattutto di mostrare al pubblico che la musica è molto più grande di noi.

 

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