Aspettando Godot (ma anche no)

In Teatro

Nel beckettiano “Dipartita finale” Branciaroli espone la sua filosofia di vita, morte e teatro e accosta in scena Pagliai, Donadoni e leggende come il 95enne Gianrico Tedeschi

La vita è sofferenza, la sofferenza è lacerazione della memoria, la lacerazione si combatte col nichilismo. Sono tautologie forse facili, ma decisamente consolatorie; e, al netto di ogni semplicismo, sono gli elementi più incisivi a corredo di una delle drammaturgie “derivative” meglio rese degli ultimi anni, quella Dipartita Finale che – già dal titolo – “ruba” a piene mani da Beckett. “Ruba” con autorevolezza, però, poiché a firmarne le pagine è Franco Branciaroli, tra gli uomini di teatro più “completi” della scena contemporanea italiana.

Branciaroli, autore della pièce e interprete di un ruolo cruciale nell’economia dello spettacolo, lancia sulla scena i suoi tre clochard alle prese con le questioni più dure, letali e demolitrici (in tutti i sensi) che l’incontro con la morte, trascesa in ogni forma umana e possibile, può presentare. Come conto – salatissimo – di un menù da pagare, come prigione sempiterna dalla quale sarà sempre impossibile evadere.

L’esperienza dell’attore, che nel corso della sua fortunata carriera è entrato in contatto con universi drammaturgici e professionali di diversa natura, da Calderón de La Barca a Goldoni e Ibsen, da Carmelo Bene a Giovanni Testori, da Ronconi a Lavia. Tutte influenze significative, che lo hanno giocoforza aiutato nello sviluppo della sua riuscita pièce: Pol, Pot e Supino, tre amareggiati clochard con bagagli di disagio molteplici, condivisi nell’angustia di un tugurio lungo il fiume, aspettando. Godot? Forse, o forse no.

E se l’atmosfera inevitabilmente beckettiana, a partire dal titolo, permea l’intera operazione, Branciaroli stupisce nel virare in maniera decisa in direzione di un esistenzialismo giocoso, di un’interrogazione con una Morte simulata a cuore aperto. L’interprete e regista sa bene cosa vuole incastonare nel suo canto d’apocalittica umanità, e ci arriva mediante una leggerezza quasi d’altri tempi, che non ha paura di osare e di apparire ingombrante proprio come i fardelli di sporca arrabbiatura trascinata dai protagonisti. Chi in catalessi, chi inutilmente speranzoso, chi è inutilmente orgoglioso.

Pedine umane di una vita spesso schifosa e irriconoscente, bene manipolate dal contesto quasi “assurdo” e dalla lieve dolcezza della regia di Branciaroli, che però è del tutto rigoroso nei riguardi della storia che racconta. Ricordare il talento di un’impareggiabile leggenda del teatro come Gianrico Tedeschi è superfluo; a fargli eco, con eguale incisività, anche gli altri due bravissimi protagonisti (Pagliai e Donadoni), oltre che Branciaroli stesso. Di nuovo alle prese con uno spettacolo di successo e con un teatro di prosa che ha finalmente rispetto per i suoi (titolati, e in locandina in ordine anagrafico) interpreti.

Dipartita finale, di Franco Branciaroli, con Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai, Franco Branciaroli, Maurizio Donadoni, Sebastiano Bottari, al Piccolo Teatro Grassi fino al 14 giugno

(foto di Alessandro Fabbrini)

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