Dalle Ande boliviane quasi un western ecologico: ma anche molto di più

In Cinema

“Utama – Le terre dimenticate” del fotografo e regista Alejando Loyaza Grisi, premiato al Sundance e in altri festival, rappresenterà il suo paese all’Oscar per il miglior film straniero. Sullo sfondo di un altopiano splendido e quasi infinito, dove l’esistenza è impossibile per la siccità, l’indomito allevatore Virginio vive con la moglie e i suoi lama che non riesce più a portare al pascolo. Il nipote viene dalla città per convincerlo a seguirlo: ma come si possono lasciare la terra e le proprie radici?

E’ senza dubbio un debutto di qualità, di grande coerenza tematica e visiva quello del 37enne regista e fotografo boliviano Alejandro Loayza Grisi, che in Utama – Le terre dimenticate affronta le condizioni di vita impossibili, sul piano materiale e psicologico, della popolazione andina del suo paese, e al tempo stesso il dramma dell’abbandono delle proprie radici e delle proprie terre. Tema strettamente correlato al forte impulso all’urbanizzazione che dilaga in tutto il mondo, e porta con se una quasi inevitabile spinta a modelli di esistenza sempre più omogenei e omologati dall’industria del consumo, dominante nelle città e nelle megalopoli di mondi in partenza molto diversi tra loro. 

Incarna questa dialettica, piena di dubbi e tormenti personali, lo scontro tra un anziano allevatore, Virginio (José Calcina) che vive con l’energica moglie Sisa (Luisa Quispe) in una modesta fattoria sull’altipiano, e il nipote amato, a sua volta assai affezionato Clever (Santos Choque), in arrivo dalla città per tentare di convincere il solitario patriarca a seguirlo. Portare ogni giorno al pascolo le decine di lama che possiede è una fatica ormai insormontabile per la sua età e le sempre più precarie condizioni di salute; accanto a questo nel film si affaccia con forza il tema della siccità (non piove da quelle parti da un anno e mezzo) che sempre più affligge la regione, declinazione del più complessivo cambiamento climatico globale, che rende quasi impossibile continuare a vivere lì. Due generazioni giocano così il loro conflitto tra una modernità ragionevole ma anche impersonale, troppo lontana da chi ne diffida avendo sposato fin dalla nascita modelli lontani, e una vita legata a credenze ancestrali e stili di vita rifiutati dalla stessa evoluzione della natura, pure indotta da vari errori dell’uomo nel suo modo di rapportarsi ad essa.

Perché se per gli indiani Quechua l’uomo e la natura sono una cosa sola, un’entità quasi inscindibile, il rigore della sua esistenza ha raggiunto un’intensità ormai insopportabile anche per il granitico Virginio. E l’apparato visivo del film, esaltato dal vasto, splendido deserto incorniciato in lontananza dalle montagne andine e da un cielo azzurro e terso (ben ripreso dall’ottima fotografa argentina Barbara Alvarez), si delinea subito come fondamentale anche per il contenuto e la forma del racconto, che tanto gioca sui silenzi, sugli sguardi significanti dei protagonisti, impersonati, nel caso dei due anziani, da attori non professionisti molto espressivi. Dice Loyaza: “Le immagini sono molto più facili per me delle parole: avevo le idee così chiare su come doveva apparire il film che ne ho disegnato tutto lo storyboard”. 

In questo scontro, che ha i suoi momenti di rottura e riconciliazione ma non avrà una composizione, Sisa rappresenta il terzo lato, difficile da sostenere: naturalmente e per passione portata a condividere le istanze, i sentimenti profondi del marito, è donna intelligente, sa ascoltare, soprattutto è spaventata dal peggioramento della salute dell’uomo, che una notte non torna a casa, sopraffatto dalle fatiche e dal male che gli toglie letteralmente il respiro. Sullo sfondo di una divisione tradizionale dei ruoli maschili e femminili ma con un personaggio di donna vivo, attivo, bello, tra credenze mistiche poco efficaci sul piano pratico ma forse benefiche in termini esistenziali, lungo giorni che nascono e muoiono sempre uguali, illuminati da tagli di luce affascinanti, Utama (che nella lingua aymara significa “la nostra casa”) svela la segreta accettazione in Virginio della morte imminente, a parole sempre esorcizzata. il giovane Cleber vive questo con angoscia, fastidio, l’effetto d’un egoismo insensibile, di un’irrazionale rigidità. Ma il vano tentativo di piegare il nonno alle sue proposte, si accompagna per lui a un percorso umano la cui profondità emotiva e affettiva sarà decisiva per il suo futuro, anche di genitore, che lo aspetta.

Coproduzione franco-uruguagio-boliviana, il lavoro di Loyaza, ribattezzato non a torto da qualcuno un western ecologista latino-americano, rappresenterà il suo paese alla competizione per il prossimo Oscar al miglior film straniero, dopo esser passato con ottimi riscontri a vari festival, dal Sundance (ha vinto il premio speciale della Giuria) a Monaco, da Amsterdam a Malaga (quattro tra i riconoscimenti principali).

Utama – La terra dimenticata di Alejandro Loyala Grisi, con José Calcina, Luisa Quispe, Candelaria Quispe, Pacide Ali, Félix Ticona, Santos Choque, René Calcina, Jorge Yucra Nogales

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