Contro la retorica della rete: per un’arte che abita il campo

In Arte

Nel giro di vent’anni il concetto di rete si è imposto come paradigma organizzativo e simbolico. Apparentemente aperta e cooperativa, la rete ha finito per funzionare come un dispositivo di semplificazione che orienta ogni azione verso criteri di misurabilità, impatto, output. L’arte relazionale corre così il rischio di perdere la propria carica generativa, trasformandosi in tecnologia sociale di prossimità, funzione accessoria di dispositivi di governance urbana, turistica o aziendale.

Nell’Ecologia della mente di Gregory Bateson c’è un principio fondativo: la mappa non è il territorio. Un monito a non confondere il modello astratto con la complessità del reale, a diffidare dei diagrammi perfetti che pretendono di sostituirsi all’esperienza. A partire da questa distinzione vale la pena ripensare uno degli emblemi dell’arte contemporanea degli ultimi decenni: la rete.

Nel giro di vent’anni il concetto di rete si è imposto come paradigma organizzativo e simbolico. Apparentemente aperta e cooperativa, la rete ha finito per funzionare come un dispositivo di semplificazione: traduce soggettività vive in nodi operativi, riduce la relazione a collegamento funzionale, orienta ogni azione verso criteri di misurabilità, impatto, output. Nel lessico culturale  (bandi, call, piattaforme, grant) si misura il “coinvolgimento”, si monitora la “partecipazione”, si rendiconta l’“engagement”. L’arte relazionale corre così il rischio di perdere la propria carica generativa, trasformandosi in tecnologia sociale di prossimità, funzione accessoria di dispositivi di governance urbana, turistica o aziendale.

Contro questa deriva, c’è l’urgenza di un ritorno al campo: non come spazio romantico o idealizzato, ma come configurazione situata, materiale, transindividuale. Il campo è ecosistema sensibile, luogo di emersione del desiderio e del conflitto, spazio che si genera nel tempo attraverso la presenza e l’ascolto, e che si oppone strutturalmente all’astrazione performativa della rete.

Campo San Giacomo da l’Orio, Venezia. Foto di Abxbay – Opera propria, CC BY-SA 4.0, Collegamento

Vivendo e lavorando a Venezia, sentiamo il termine campo in modo specifico. A Venezia, i luoghi pubblici non si chiamano piazze. Si chiamano campi. Non sono centri monumentali, ma spazi irregolari, attraversabili, quotidiani. Luoghi che non si impongono alla vista, ma si lasciano vivere. I campi veneziani sono dispositivi di relazione non intenzionale, spazi di uso differenziale, dove la sosta, l’errore, l’imprevisto hanno cittadinanza. In questo senso, essi offrono una potente metafora per ripensare l’arte relazionale fuori dalla logica della prestazione. 

Progettare un campo significa rinunciare al controllo, accettare il rischio, l’ambiguità, la possibilità del fallimento. Significa aprire una zona dove può emergere ciò che non era contemplato, dove qualcosa sfugge alla griglia degli indicatori. È l’esatto opposto della pianificazione performativa che accompagna tanta progettazione culturale contemporanea, fatta di deliverable, milestone, gantt colorati.

Il campo, allora, chiede un diverso regime di tempo: non l’urgenza lineare del project management, ma il ritmo corporeo dell’ascolto, della stagione, del meteo, della relazione che matura o si rompe. Chiede anche un diverso regime di attenzione: non la connessione rapida della rete, ma la presenza densa del luogo. Qui l’artista non “facilita processi”, ma abita complessità, lascia che le domande restino aperte, costruisce situazioni in cui la trasformazione è condivisa ma non contabilizzata.

Penzo + Fiore, foto di Linda Scuizzato

Concretamente, questo significa privilegiare interventi lenti, laboratori che non producano subito un output instagrammabile, opere che resistano alla tentazione della “vertical slice” da portfolio. Significa accettare che la qualità di un progetto possa misurarsi in zone d’ombra, in incompiutezza fertile, in relazioni che proseguiranno lontano dai riflettori.

Se l’arte vuole restare viva, deve forse riportare il proprio baricentro dal diagramma al terreno, dal protocollo al contesto, dalla rete al campo. Restituirsi una densità affettiva, incarnata, vera; difendere un tempo che non coincide con il report finale, ma con il respiro delle persone coinvolte.

Forse solo nel campo la relazione può tornare a essere pienamente tale. Forse solo lì l’arte può ancora accadere.


Penzo + Fiore è un duo artistico che opera a venezia dal 2009 e la cui pratica artistica nasce dalla relazione, indagando tematiche a partire da intuizioni intime percepite come urgenti e condivisibili, oppure da tematiche civili che vanno affrontate.

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