Come tremiamo riflessi nelle promesse mancate. Da Cechov a Ferracchiati

In Teatro

In Come tremano le cose riflesse nell’Acqua, al Piccolo Teatro Melato fino al 25 febbraio, il drammaturgo e regista umbro e una compagnia affiatatissima (con Laura Marinoni in stato di grazia) portano una “sovrascrittura” del Gabbiano potente e precisa.


“Voi tenete sempre fortemente la vostra vita in mano?” la domanda del Figlio – che ha perso il suo nome dentro al ruolo – morde come il buio le fragilità di una generazione – o forse due – che tremano “Come tremano le cose riflesse nell’acqua”. Solo che, sul palco del Piccolo Teatro (lo Studio Melato, non a caso, dedicato agli studenti in formazione) ci sono molte fragilità. Due, su tutte: quella di un Figlio in cerca di senso, che conosce le proprie macerie. Ma anche quelle di sua madre, che si rifiuta di vederle, pur di non morire. Entrambi sono attori, e per provare a salvare se stessi hanno soltanto il potere causativo della parola, capace di plasmare la realtà come può avvenire in scena, di ancorarsi alla materia attraverso l’immateriale. Come l’acqua del lago – fuori da vetrate che opprimono anziché far respirare – che ha bisogno di rovesciarsi in un interno borghese, ridotto qui ad un contemporaneo essenziale. L’oggi di un salotto e cucina con tanto di playstation a incorniciare presenze che provano a comporsi nelle parole giuste: “Per me la scrittura ha senso solo se agisce sulla vita”.

Il Figlio, (Giovanni Cannata si prende sulle spalle con coraggio una sfida enorme) dal Gabbiano che attraversa questo lavoro, prende la morte del volatile e le bende di un colpo non andato a segno, ma perde, quasi fino alla fine, il nome di Kostia. Ad essere messo in luce, nella lettura di Liv Ferracchiati, è però l’esigenza di tendere a un iperQui, una presenza di senso che in si annacqua in “robette  graziose e tediose”, reami di regine decadute come la Madre – la diva Arkadina per Cechov – che coltivano la propria disperata idolatria “divorando”, umiliando i propri figli per non dovercisi confrontare. Molto oltre la riflessione sulla scena, nel post-Gabbiano di Ferracchiati c’è il momento della vita in cui ci si rende conto che non tutto è più possibile, e si scopre di essere usciti sconfitti dalle proprie aspirazioni. Non basta volere qualcosa perché si realizzi, amare qualcuno perdutamente per essere riamati. Lo sa la Vicina, una dolcissima e dolente Camilla Semino Favro, consapevole che gli amori senza speranza esistono solo nei romanzi, ma rassegnata a una devozione senza scopo per lo stesso Figlio. Lui l’ha imparato guardando Nina, Petra Valentini, che rende onore all’UBU under35 appena conseguito, conserva il nome dato al personaggio dal suo primo autore e credendo di tracciarsi un percorso diverso si avvia invece inconsapevole a un destino non diverso da quello degli altri, funestati dall’angoscia di non essere intelligenti abbastanza, talentuosi abbastanza, amati abbastanza, come nel suo caso, da uomini come il Romanziere, che replicano clichè di maschi fragili nel loro egocentrismo. (un Roberto Latini detestabile proprio come deve). Contornati da uomini minati nel fisico o nello spirito (Nicola Pannelli e Cristian Zandonella sono Lo Zio e il Maestro), a loro volta perseguitati da ciò che avrebbero voluto essere. O che pensano di aver già vissuto tutto, abbastanza sazi della vita da dispensare consigli, come il Dottore di Marco Quaglia  

L’unico legame che resiste – e divampa – è, proprio perché di tutto questo è la raffigurazione più potente e viscerale, quello tra il figlio e la Madre, Laura Marinoni monumentale nella verità che riesce a mettere a nudo in scena. Un legame fatto della sensualità di cui si nutre l’odio per chi si vorrebbe essere. Della rabbia che sa produrre solo l’impotenza degli amori assoluti, della distruzione del distacco e della fame di reciproca dipendenza,
L’infelicità invelenisce due che si assomigliano al punto da voler tornare a coincidere, anche fisicamente, fino alla resa. Alla consapevolezza che – a volte – anche vittoria e sconfitta sono la stessa cosa.

Chi ce l’ha fatta alla fine ha perso, e gli sconfitti hanno capito che l’apparenza dell’equilibrio è qualcosa di fragile come respirare.
Non senza una ironia puntuta – “Come si fa a piangersi addosso con tanta maestria?” – , che in una traversata emotivamente molto densa lascia lo spazio anche per ridere, Liv Ferracchiati dà forma al suo lavoro più a fuoco, tiene insieme la consueta intelligenza con una tagliente chiarezza, gioca con l’abbondanza di riferimenti, da David Foster Wallace all’Amleto già in filigrana al Cechov originale, tenendo insieme, in quasi tre ore senza fiato ma che scivolano via come le cose misurate con cura, la sua abituale ricchezza di letture sottese. E porta lo spettatore a domandarsi quando sarà giunto a una profondità di sguardo sufficiente a cogliere tutti gli stimoli. Ma in fondo, forse la risposta è la stessa del suo protagonista, e ha qualcosa a che fare con la stessa fase della vita di cui si diceva.  Quando si desidera trovare la propria misura del mondo, imitare, se non diventare, chi ha abbastanza disinvoltura da far pensare di averla già compresa, e probabilmente ha soltanto capito che niente ferma il tremolio dell’acqua, nemmeno le parole. “Scrivevamo parole vuote, e credevamo di compiere imprese”. E allora, sulla scena che li anima, non si può che lasciare che si scrivano le maschere che le incarnano domande senza risposta: scrivi tu cosa sono: potrei essere qualsiasi cosa”.

Foto copertina: Masiar Pasquali

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