I vampiri odiano il sole o dei colori del cinema muto

In Cinema, Weekend

Come mai pensiamo ai film muti in bianco e nero? Eppure l’80 per cento di quelle pellicole erano in origine a colori. Mentre si chiudono Le giornate del cinema muto di Pordenone, breve storia di come il cinema abbia provato e sia riuscito a darsi (e poi a perdere) il fard, ovvero il colore, sin dagli albori

Può un vampiro stare alla luce del sole? Evidentemente no, si è detto un mio amico dopo aver pescato in rete e visto Nosferatu Il vampiro (1922), il capolavoro di Murnau. E allora com’è possibile, si è chiesto, che il conte Orlok venga sconfitto con la luce del sole solo nel finale, quando ha in realtà già passato metà film alla luce del giorno? La soluzione la trovate in fondo a questo articolo,  ma intanto anche voi provate a pensare ed un film muto. Proprio in questo weekend peraltro si chiude l’edizione 2017 di un festival, le Giornate del cinema muto, che dal 1982 non cessa di riproporre film, capolavori e riflessioni su quell’alba del cinema, attirando a  Pordenone cinefili e pubblico internazionale.

Molti di voi, pensandoci, visualizzeranno subito immagini in bianco e nero perché il colore raggiunse gli schermi cinematografici solo successivamente. Ebbene, non è del tutto vero. In realtà circa l’ ottanta per cento dei film muti sono stati realizzati a colori. Fin dagli albori, tecnici e inventori sono stati costantemente impegnati nella messa a punto di tecnologie che portassero sullo schermo quegli elementi di cui l’immagine in movimento era ancora priva: il colore, il suono e perfino la tridimensionalità.

Numerosi furono i metodi di colorazione sperimentati, almeno fino agli anni Trenta, quando l’introduzione di una traccia sonora ottica sulla pellicola donò la parola al cinema, attirando masse di pubblico e decretando la perdita di interesse, momentanea, alle sperimentazioni sul colore. Da sempre infatti, essendo il cinema strettamente legato alle contingenze commerciali, è la legge del mercato che decreta il successo o meno di nuove tecnologie.

Prima di tutto, un passo indietro. Come mai oggi conosciamo per lo più film muti in bianco e nero e pochi di noi hanno avuto esperienze di visione a colori? Si diceva di come il mercato influenzi costantemente gli sviluppi tecnologici e il corso della storia del cinema. Ebbene, anche in questo caso, la settima arte dovette adeguarsi ad un’innovazione che creò non poco scompiglio: negli anni Cinquanta vennero introdotte nuove pellicole con supporto in acetato di cellulosa, a sostituire le pericolosissime pellicole in nitrato, utilizzate fino a quel momento. I film muti erano ovviamente tutti in nitrato, quindi chi era in possesso di questo supporto obsoleto e pericoloso tendeva a disfarsene (ragione per cui la maggior parte del patrimonio filmico muto è andato perso), facendo fare, nel migliore dei casi, una copia in acetato. Quando queste duplicazioni da nitrato ad acetato furono effettuate non esisteva alcun modo per riprodurre gli sfavillanti colori del muto e nessuno si poneva nemmeno il problema di effettuare una copia che fosse fedele all’originale.

Eravamo assai lontano dal parlare di restauro cinematografico, concetto assai più recente, e tantomeno dell’etica del restauratore che oggi richiede assoluta fedeltà all’elemento originale. I film muti a colori venivano quindi semplicemente duplicati in pellicole in acetato bianco e nero. La nostra fortuna è che alcuni nitrati originali si sono salvati e risiedono ancora negli archivi delle Cineteche in giro per il mondo (e l’occasione di Pordenone si rivela assai preziosa per poterli vedere). Solo dagli anni Ottanta, quando il restauro divenne una istanza di archivisti e curatori, fu messo a punto un sistema di duplicazione analogica in grado di simulare i colori usati nel muto, il metodo Desmet (dal nome dell’inventore , Noël Desmet tecnico del laboratorio della Cinémathèque royale de Belgique).

Dei centinaia di metodi di colorazione sperimentate nel corso della storia del cinema, tra sistemi additivi e sottrattivi, quelli più usati nei primissimi anni e nell’epoca del muto, prevedevano una applicazione autonoma dei colori sulla copia positiva del film ed erano essenzialmente quattro. La colorazione a mano faceva sì che, sotto il tocco di sapienti, fini e pazientissime mani, il film venisse colorato fotogramma per fotogramma con pennellini e una tinta a base di acqua o alcol. I bordi spesso non erano perfettamente seguiti e solo alcuni elementi della scena, come vestiti o oggetti, venivano colorati, il resto veniva lasciato in bianco e nero. Centinaia e centinaia di signorine erano impegnate alla colorazione di una singola copia del film, così per ovvie ragioni di costi, si sviluppò presto un sistema automatizzato e la colorazione manuale cadde in disuso e si passò allo stencil che, di fatto, rappresenta l’automatizzazione della colorazione a mano. Sviluppata in Francia dalla Pathè Film, prevedeva che la parte da colorare fosse tagliata automaticamente da un pantografo, poi colorata da un rullo e applicata infine sul frame in bianco e nero. Era possibile ottenere fino a sei colori diversi con una grande precisione di esecuzione.

C’è poi il metodo dell’imbibizione (in inglese, tinting). Il rullo di pellicola positiva veniva immerso in bagni di colore, tutto il frame veniva quindi colorato uniformemente (anche lo spazio tra le perforazioni e l’interlinea). La gradazione di colore andava da un intensa colorazione fino ad un nero quasi completo, nelle zone a bassa densità dell’immagine. In questo caso il colore serviva per chiarire l’ambientazione della scena (blu per la notte, ambra per gli interni), oppure per suggerire un stato d’animo (rosso per condizioni di pericolo, lavanda per atmosfera sovrannaturale...). Di solito ogni casa di produzione aveva i suoi colori di riferimento e spesso, le scene colorate si alternavano a sequenze in bianco e nero.

Infine il viraggio (in inglese, toning). Il risultato e l’effetto ottenuti sono molto simili all’imbibizione, ma in questo caso il film subisce un processo chimico: i grani d’argento impressionati, colpiti dalla luce, subivano un processo chimico e venivano sostituiti con altri sali colorati. A differenza dell’imbibizione, qui si va solitamente da colore a bianco puro. Colori caratteristici erano il cosidetto seppia, un bruno rossastro, il “prussian blu”, il “metalling”, un rosso-arancio.

Compito del restauratore è dunque oggo quello di salvare il salvabile, anche con il supporto delle nuove tecnologie digitali. Spesso i colori giunti a noi risultano sbiaditi, a causa di cattive condizioni di conservazione in passato, o per una fisiologica usura (la copia positiva era sottoposta al calore della lampada di proiezione), in molti casi solo una copia in bianco e nero è sopravvissuta. In questo caso non resta altro da fare che tentare una ricostruzione arbitraria dei colori, cercano di avvicinarsi il più possibile alla magia dei colori originali.

(Volete sapere del vampiro? Ebbene, Murnau aveva effettivamente girato le scene notturne alla luce del giorno, cui una colorazione blu scura avrebbe successivamente dato la giusta ambientazione notturna. Questa dimensione temporale, questa scelta registica si perde del tutto se, come il mio amico, guardate il film in bianco e nero e, con essa, svanirà tutto il senso del film. Allora, se mai guarderete Nosferatu, assicuratevi i di avere tra le mani la versione a colori e gustatevi gli sfavillanti colori del muto riportati alla luce! ).

 

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