Manuale per scrittori di successo /6

In Letteratura, Weekend

Tasto sempre dolente: scrittore e scrittrice, è la stessa cosa? A Charlotte Brontë, per esempio, venne detto che scrivere non è affare da donne e che anzi le distoglie dai loro doveri. Altri tempi? Più no che si e leggete, con Edna O’ Brien, perché

Il 29 dicembre 1836 Charlotte Brontë ventenne imbusta un fascio di sue poesie, acclude una lettera di accompagnamento, raggiunge l’ufficio postale dell’oscuro borgo in cui vive e spedisce il plico a Robert Southey, poeta laureato e mezzo parente di Coleridge. La giovane chiede un parere e un paio di mesi dopo Southey le risponde cortese, ma secco: «La letteratura non può essere impegno femminile, non lo dovrebbe essere. Intenta a disimpegnare i doveri del suo stato (her proper duties), non potrà dedicarsi allo scrivere, anche solo come evasione e passatempo». Sono buoni i testi di Charlotte? Sono una schifezza? Non importa: la letteratura non è un lavoro da donne.

Pace all’anima di Robert Soutney, e che Iddio lo perdoni. In fondo quel che ha detto, l’ha detto per il bene di Charlotte. Perchè la ragazza non avesse a soffrire scegliendo una strada che non era socialmente consigliabile. E me la vedo lei, piccolina, bruttarella, colta, intelligentissima, non proprio povera ma neanche benestante, volontà di ferro, devota al padre e a quello sciagurato del fratello maschio: si rigira la lettera del Grande Soutney tra le mani, getta uno sguardo alla stanzetta linda, umida e buia che divide con le talentuose sorelle minori (growing potatoes in a cellar), si batte il petto e con ardore si pente degli impulsi sconvenienti che troppo spesso l’attraversano: «Alcune volte mentre insegno o cucio mi prende il desiderio di leggere o scrivere, ma so controllarmi – confessa – confido di non essere mai più tentata di vedere il mio nome stampato; se il desiderio risorgesse, leggerei nuovamente la lettera di Soutney e lo reprimerei».

Quanto dolore, Charlotte. Ma per fortuna una sera, nel salottino in cui trascorre il dopocena al buio per risparmiar candele inventando storie insieme alle sorelle, la maggiore delle Brontë deve aver riconsiderato la faccenda. «Emy, Anne, ascoltate. Al diavolo il vecchio». Undici anni dopo arriva Jane Eyre e il successo letterario oggetto di questo manuale e anche la risposta che il poeta laureato, diciamolo, meritava, e che la voce narrante di Jane Eyre – sublime romanzo di vendetta – mette nero su bianco: «Le donne provano gli stessi sentimenti degli uomini. Hanno bisogno di esercitare le loro facoltà, e di provare le loro capacità come i loro fratelli; soffrono come gli uomini dei freni e dell’inattività, e fa parte della mentalità ristretta dei loro compagni più fortunati il dire che si devono limitare a cucinare e a far la calza, a suonare il piano e far ricami».

Certo che da allora ne abbiamo fatta di strada. La musica è cambiata, vivaddio. Sarebbe contenta Charlotte di sapere che adesso la donna vola nello spazio, siede in Parlamento, si gioca la presidenza degli Stati Uniti, guida perfino l’autobus: cosa vuoi che sia un posto nel pantheon letterario! Oggi, se vuole, se ne ha il talento, la donna può. Pensa a J.K. Rowling, pensa a Toni Morrison e Wislawa Szimborska.

No. Leggete Edna O’ Brien. Quasi due secoli dopo il diktat di Southey, ha regalato a La Lettura questo interessante quadretto di vita familiare e del mestiere dello scrittore: «I bambini andavano a scuola tutti i giorni tranne il sabato, ma io dovevo lavorare anche di sabato. I miei figli mandavano dei messaggini attraverso la porta: “Ci manchi!”. E io ero là, dall’altra parte». Signore che leggete questo manuale; sorelle, lo dico per il vostro bene, come faceva Southey con Charlotte: pensateci, siete pronte a ignorare i messaggini? Dentro di voi, lo state davvero dicendo al diavolo il vecchio?

E comunque sappiate che, quand’anche aveste la forza di chiudervi a chiave dentro la stanza tutta per voi che raccomandava Virginia Woolf, non diventerete uno scrittore di successo. Al massimo, una scrittrice, ma non è la stessa cosa.

Scrittrice sarà lei! si rabbuiava infatti Elsa Morante se qualcuno si permetteva. E non erano i tempi della regina Vittoria, ma gli anni del divorzio e dell’aborto. Per i lettori di metà Ottocento, le sorelle Brontë sono i fratelli Currer, Ellis e Acton Bell. «Avevamo la vaga impressione che alle autrici si guardasse con pregiudizio – scrive Charlotte – avevamo notato che la critica usa per condannarle l’arma della personalità e per lodarle una lusinga che non è vero apprezzamento». I critici la sgamano al secondo romanzo, Shirley, e lei scrive una lettera di fuoco a un recensore: «Desideravo essere giudicata in quanto scrittore, non in quanto scrittrice».

C’è un motivo per cui Marian Evans si fa chiamare George Eliot, se Amantine Dupen preferisce firmarsi George Sand e se la signora Rowling, lo scrittore-donna più pagato al mondo, quando tenta l’avventura dello pseudonimo (vedi la prima puntata di questo manuale) sceglie di chiamarsi Robert. C’è un motivo.

 

MORALE: Leggete Una stanza tutta per sè di Virginia Woolf e poi decidete. Edna O’ Brien chiude il cerchio da par suo sul New York Times, rispondendo a un Philip Roth (quel Roth) particolarmente insistente sulla faccenda del genere in letteratura. Philip, dice, datti pace. Gli uomini che scrivono partono con un bonus. Le donne lettrici (mogli, amanti, muse o balie) li aspettano a braccia aperte. Meglio saperlo. Attrezzarsi psicologicamente. Come poi le cose stiano davvero, e che gran battaglia sia la scrittura, lo sanno tanto gli scrittori maschi quanto gli scrittori femmine: una volta chiusa porta, il lavoro è quello lì, creare dal nulla, con tutta l’angoscia del caso. E la stanza di Virginia Woolf è la stessa di Gustave Flaubert, echoing with curses and cries of distress.

 

Elisabeth Gaskell, La vita di Charlotte Brontë, Castelvecchi, 2015.

Virginia Woolf, Una stanza tutta per sè, varie edizioni.

L’intervista a Edna O’Brien è uscita su La Lettura del 7 febbraio 2016.

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