Cabaret distopia

In Teatro

Foto © Serena Pea

Commedia delle vanità è un dramma giovanile del nobel Elias Canetti, scritto tra il 1933 e il 1934, portato in scena in questi giorni sul palco del Piccolo Teatro Strehler da Claudio Longhi

L’atmosfera in cui ci troviamo immersi è quella di una realtà distopica ma che potrebbe essere senza dubbio connessa all’Europa degli anni Trenta e anche di oggi.

Un potere “altro” che potrebbe essere quello di un governo totalitario, ma di cui mai per tutto l’opera si fa un nome, con un editto bandisce la produzione e la riproduzione delle immagini, la visione di pellicole cinematografiche e l’uso degli specchi, al fine di vietare la vanità del singolo individuo.

La massa del popolo accoglie favorevolmente l’iniziativa e trasforma il grande rogo, che rimanda inevitabilmente al rogo dei libri voluto da Hitler a Berlino il 10 maggio 1933, in una grande festa.

Dieci anni dopo l’emanazione di questi decreti però nascono piccoli commerci sotterranei di immagini e di pezzi di specchi e la malattia dell’io- individuo che non riesce più a distinguersi dalla massa è talmente dilagante che viene permessa l’esistenza e la frequentazione di una “casa di cura” una casa della tolleranza dell’immagine, in cui è concesso specchiarsi.

Nella versione originale il copione de La commedia della vanità prevedeva oltre sette ore di spettacolo, quello che però ci porta in scena Longhi è una riduzione di “appena” quattro ore. Lo spettacolo di apre sul tendone di un circo decadente, un microcosmo dove l’umanità viene rappresentata in tutte le sue bassezze e la sue debolezze. Subito andiamo con la mente al film quali Freaks di Tod Browing (1932) o Lola Montès di Max Ophuls (1955).

Al centro di questo tendone da circo è posizionata una gabbia, attorno alla quale si svolge tutto lo spettacolo, quasi ad indicare che la commedia umana che si svolge sul palcoscenico altro non sia che una serie di fenomeni da baraccone, preda come animali del circo dei loro istinti animaleschi e nello stesso tempo annichiliti dalla privazione della loro libertà e della loro identità.

L’ambientazione circense tuttavia non la si ritrova solo nella armonica decadenza delle scene di Guia Buzzi e nei costumi di Gianluca Sbicca, anch’essi  spettacolari nel senso più letterale del termine, ma soprattutto nella struttura della messa in scena. Ogni vicenda sembra infatti costituita da un numero di varietà e ogni numero si sussegue all’altro intervallato soltanto dall’intrusione del burattinaio, il potere, (Fausto Russo Alesi) che si esprime attraverso tre personaggi. Con lui assistiamo all’evoluzione del potere, Barloch, l’imballatore, corrisponde ad una fase primordiale e animalesca dell’autorità, spogliandosi e mangiando con voracità ci porta direttamente alla chiara ostensione del proprio corpo. Garaus, il direttore, esprime la frustrazione del potere, con la sua forte aspirazione ad essere il grande dittatore e contemporaneamente senza riuscire a soddisfarla. Föhn, è una sorta di incarnazione del Superuomo nietzschiano. Sulla cornice troviamo la massa, sempre più sull’orlo del collasso. 

Lo spettacolo è suddiviso in tre parti, la prima è una parade, in cui i personaggi sfilano tra il pubblico proprio a dimostrare la loro terribile natura umana, sullo sfondo un video (nel formato ricorda lo schermo degli smartphone) con altissimi palazzi  che rimanda a Metropolis di Lang (1927), la seconda appare più legata al dramma borghese, la terza che appare decisamente più tragica, figlia di un espressionismo tedesco, che rimanda immediatamente a Das Cabinet des Dr. Caligari (1920), e a Nosferatu di Murnau (1922).

Quello che però risulta comandare tutti e tre gli atti è proprio il grottesco, portato all’esasperazione. È evidente già nel testo la critica alla rappresentazione come strumento di auto-riconoscimento, alla propensione tutta umana di far dipendere la propria identità dalla rappresentazione del sé, con la quale, spiega Föhn alla fine dello spettacolo, ognuno di noi vive in stato “coniugale” fin dalla nascita. Ma il testo non si ferma qui, ci porta a riflettere sull’importanza dell’immagine come costitutiva dell’identità singola, l’astinenza da immagine induce infatti al dissolvimento dell’io, rappresentato dalla malattia dello specchio.

Il mondo a cui Canetti sembra far riferimento appare in maniera inequivocabile il nostro, regolato dai nostri profili Instagram, dal bisogno rassicurante di selfie continui, di ossessione narcisistica, di auto-contemplazione, questo testo, se si resiste alle quattro ore di spettacolo, può aprire una profonda riflessione sugli usi e costumi passati, presenti e futuri.

FOTO © SERENA PEA